Università, tagli e scioperi. Tutti hanno torto e ragione.

Le università rappresentano il primo volano di crescita di un Paese, perché trasmettono cultura e, grazie alla ricerca, permettono ad un Paese di progredire. Attenzione, quando si parla di ricerca non s’intende solo la ricerca scientifico-tecnologica, quella è utile, sì, ma non è sufficiente. Il tecnismo, da solo, non basta a rendere un Paese culturalmente e socialmente maturo, anzi, se lasciato da solo rappresenta un pericolo. La ricerca è essenziale in tutti i campi, da quello giuridico-economico a quello filosofico e letterario, a quello politico, sociologico e antropologico. Insomma, tutti i campi del sapere hanno bisogno di ricerca.

Peccato che negli ultimi decenni, a partire dalla riforma Berlinguer, voluta dal centro-sinistra (Ministro Luigi Berlinguer, sotto i governi Prodi e D’Alema, da non confondere con il cugino Enrico, come spesso – oddio – mi è capitato di sentire…) e poi con la riforma Moratti (governo Berlusconi) e i successivi correttivi, le Università siano state considerate come meri istituti professionalizzanti, però dotati di autonomia. Ciò ha comportato l’abbassamento generale della qualità della didattica (pensiamo, per esempio, al sistema dei crediti formativi legato al numero di ore di lezione e al numero di pagine dei manuali) e ad una corsa sfrenata all’acchiappamatricole, con offerte formative spesso discutibili (corsi di laurea triennali inutili, corsi interfacoltà superflui) e slegati dal mondo del lavoro (molti corsi triennali non formavano figure appetibili alle Aziende). Se l’intento delle riforme era quello di legare Università e Lavoro, hanno fallito miseramente (come fallirà – e ciò merita un articolo a parte – l’alternanza scuola-lavoro voluta dal governo Renzi).

I fondi sempre più esigui alle Università

Il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), che è quel fondo destinato a finanziare le Università da parte dello Stato, è in rotta di collisione ormai da quasi 20 anni. Con le varie riforme e soprattutto a partire dagli anni della crisi economica il fondo è drasticamente calato, il ché ha comportato un notevole abbassamento della qualità formativa universitaria e il fuggi fuggi generale dalle Università del Sud (maggiormente colpite dai tagli) a favore di quelle del Centro-Nord. Basti pensare che l’art. 64 comma 13 della legge n. 133/2008 riduceva il FFO “di 63,5 milioni di euro per l’anno 2009, di 190 milioni di euro per l’anno 2010, di 316 milioni di euro per l’anno 2011, di 417 milioni di euro per l’anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013”. Le manovre correttive successive hanno ridotto i tagli al FFO, però non hanno concesso fondi “a pioggia”, bensì sulla base di criteri premiali stabiliti dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR). E’ qui che casca l’asino. Vi chiedo giusto 20 secondi per leggere il paragrafo successivo e per capire come funziona l’attuale sistema di finanziamento alle Università.

l’ANVUR

Venne istituito nel 2006, con legge 286/2006, sotto il Governo Prodi, con Ministro dell’Istruzione Fabio Mussi (DS). L’Agenzia ha il compito di valutare le Università e la Ricerca con criteri piuttosto discutibili sul piano democratico, ossia i criteri non vengono elaborati da una discussione democratica (da un Parlamento o da un organo di raccordo tra Ministero e Università), ma da un’Agenzia che risulta formalmente autonoma, ma vigilata dal Ministero dell’Istruzione, tant’è che ultimamente le attività dell’ANVUR sono state oggetto di contenzioso giudiziale e la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha bacchettato l’ANVUR in merito ai criteri sulla valutazione delle riviste.

Già, è qui il punto focale della questione. L’ANVUR valuta le Università e l’operato del corpo docente soprattutto in base al numero di pubblicazioni fatte in certe riviste, da essi stessi indicate, e su cui il docente deve pubblicare, pena la decurtazione del finanziamento all’Università in cui opera. Quindi, per fare un esempio, se la rivista “il commento giuridico” (nome di fantasia) è accreditata dall’ANVUR e il docente pubblica tre articoli, di cui due con un semplice “errata corrige” (cioè una correzione formale, che nulla aggiunge al contenuto dello scritto), riceverà una buona valutazione (e quindi maggiori finanziamenti) rispetto ad un collega che pubblicherà 20 ottimi articoli su una rivista autorevole, internazionale e riconosciuta dalla comunità scientifica, ma non accreditata dall’ANVUR. Ciò comporta come corollario che il docente dovrà “farsi amico” l’editore e, molto probabilmente, seguire la sua linea editoriale, con buona pace della libertà della ricerca.

Dunque è facile immaginare che, nell’opacità dei criteri di valutazione e nelle scelte dell’ANVUR di finanziare in modo pressoché discrezionale le Università, si annidano le scelte politiche del Ministero che – controllando l’ANVUR – controlla di fatto il sistema universitario e ne lede l’autonomia, scegliendo chi finanziare e chi no, in un quadro in cui il FFO è misero e la vita dell’Università si gioca sul solo fondo premiale. Quindi, in buona sostanza, i docenti non sono più liberi di pubblicare sulle riviste universalmente riconosciute dalla comunità accademica internazionale, ma su quelle volute – in ultima analisi – dal Ministro e non sono nemmeno più propensi a fare ricerca, bensì a pubblicare anche roba trita e ritrita, l’importante è farlo dove vuole l’ANVUR!

Il baronato nell’università

Certo la colpa dello stato in cui versa l’Università non è solo della politica, anche i docenti hanno le loro colpe. Il sistema universitario italiano – nessuno escluso – è colpito dalle logiche baronali, per cui l’accesso alla carriera universitaria (dottorati, assegnisti, ricercatori) è appannaggio del docente politicamente più forte e autorevole nelle mura dell’Ateneo.

Non è certo un mistero che i concorsi per accedere al dottorato (a maggior ragione con borsa) siano truccati e cuciti su misura del candidato prescelto e che la logica di accesso allo status di assegnista o ricercatore è basata sull’obbedienza al docente e non sul merito. Ovviamente per mantenere quel misero assegno di ricerca, bisogna non infastidire né il docente né i suoi amici, anzi, a volte occorre sacrificare la propria dignità per rispettare le regole imposte dal docente o dal dipartimento da lui (o loro) controllato.

La denuncia della ricercatrice dell’Università di Pisa, salita recentemente alla ribalta nazionale, non stupisce nessuno di quelli che nelle università ci hanno studiato o combattono ogni giorno con il precariato e il nepotismo, fenomeni che colpiscono spesso, rispettivamente, chi vale e chi invece ha rapporti di parentela o amicizia con il docente, a discapito del merito. A Bari, per esempio, un intero corridoio di un dipartimento era l’estensione del nucleo familiare del docente. Ciò non giustifica le scelte ministeriali, ma è un chiaro indicatore che l’Università non brilla in meritocrazia e quindi eticamente non potrebbe fare la voce grossa con la politica, che non incentiva la meritocrazia. Tutto ciò è l’emblema dell’evangelico “Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello”.

Lo sciopero dei docenti dell’università

In questo desolante quadro i docenti, ormai stanchi di subire i tagli ai finanziamenti e i blocchi agli stipendi, hanno deciso di farsi sentire indicendo uno sciopero proclamato dal Movimento per la dignità della docenza universitaria. Lo sciopero nasce dopo anni di vertenze e numerosi – infruttuosi – incontri con il Ministero per lo sblocco degli scatti stipendiali, fermi al 2011. I tagli al FFO, massicci al Sud, gli stipendi bloccati e il carico di lavoro dei docenti, che si pagano l’acquisto di libri e materiale didattico con i propri soldi, insieme al progressivo depauperamento del sistema universitario, hanno portato i docenti a scioperare, per far conoscere alla popolazione lo stato in cui versa l’Università. Se da un lato mi sento di dargli ragione, dall’altro, però, penso che questa situazione sia stata anche voluta da loro. Non da tutti, è chiaro. Ma conosco (anche personalmente) numerosi docenti che, negli anni, hanno militato nei partiti, hanno ricoperto posizioni apicali (penso a Luciano Modica, ex rettore dell’Università di Pisa, che ha contribuito all’istituzione dell’ANVUR) e – come detto in precedenza – hanno approfittato dell’autonomia per fare i propri comodi e regalare posti di lavoro o di ricerca a parenti e pupilli.

Lo sciopero però, in fondo, è giusto e la speranza resta. La speranza di mettere al centro del dibattito politico un tema vitale per la cultura, l’economia e il progresso (materiale e spirituale) di questo Paese, in modo da correggere gradualmente le storture prodotte da ambo le parti, dalla politica nel ridurre alla fame l’unico vero strumento di determinazione culturale del popolo italiano e dal baronato nell’aver ridotto le Università a parentopoli e amicopoli. Mi auguro che ognuno tolga la trave dall’occhio dell’altro.

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