In requiem del PD

Un commento sulla ventura morte di un PD appena adolescente, nato malformato e con poche speranze di guarigione.

Era il lontano 2004 quando DS, Margherita, Socialisti Democratici Italiani e Movimento dei Repubblicani Europei si presentarono insieme alle elezioni europee con la lista dell’Ulivo. Lo stesso accadde per le elezioni regionali del 2005. Nel 2006 si consolidò la coalizione sotto il nome de L’Unione, con a capo Romano Prodi (quello delle privatizzazioni selvagge).

In quello stesso anno iniziò il percorso di fusione tra le anime europeiste, riformiste e moderate del centro sinistra, tanto che nell’ultimo congresso dei DS, nel 2007, molti esponenti dell’area di sinistra abbandonarono il partito per formare altri soggetti politici, a differenza della Margherita di Rutelli, che confluì quasi in blocco nel nuovo soggetto. Da segnalare che uno dei padri costituenti del PD fu un certo Mario Adinolfi.

A fine 2007 nacque il Partito Democratico il cui simbolo, nell’idea dei costituenti, rappresentava, con il verde il laicismo e l’ambientalismo, con il bianco la tradizione cattolica e con il rosso l’ideologia socialista e del lavoro. Per i costituenti il PD doveva rappresentare la sintesi di tre opposte concezioni della politica nazionale ed internazionale.

Tuttavia l’idea di fondere in un unico partito diverse ideologie fu l’origine della propria sventura, perché se è vero che in quel periodo si guardava oltr’alpe all’esperienza bipolarista di Paesi come gli USA o l’Inghilterra e che si cercava di importare un sistema a noi estraneo nella tradizione politico-istituzionale, è anche vero che mai, all’interno del PD (come del resto – e si è visto – è accaduto nel PDL) è stata fatta un’operazione di sintesi dialettica sulle opposte visioni della cosa pubblica.

In altre parole mai, finora, il PD ha saputo costituire un progetto politico che sintetizzasse i valori di fondo così estremi l’uno con l’altro e così diversi. L’unico chiodo fisso è sempre stato quello di ottenere numeri, come se la scienza elettorale fosse semplice aritmetica, per cui basta sommare i voti di cattolici, riformisti, socialisti, europeisti, ambientalisti, ecc. per avere numeri bulgari per governare. Peccato che nel PD non si sia mai capito che non basta scegliere un leader carismatico o comunicatore oppure istituzionalizzato e d’appeal tra le lobby interne ed estere, ma occorre dotarsi di una visione chiara e lungimirante degli obiettivi pubblici, creare sinergia con la gente, l’associazionismo, le imprese e, in genere, con le realtà locali per discutere, scegliere e fare sintesi di alterne visioni del mondo.

L’ideologia, che oggi in tanti disprezzano, non è altro che un’idea, frutto della discussione e della sintesi, di come si vuole che vada il Mondo. Ed è proprio la mancanza di ideologia, che caratterizza i partiti degli ultimi 30 anni, ad essere una delle cause della crisi della politica e della nascita dell’antipolitica. Perché senza ideologia, senza una visione della cosa pubblica, senza discussione e confronto con le realtà locali, non può nascere un percorso politico che sia compreso e supportato dalla gente.

Tuttavia le ideologie sono considerate ormai archiviate dai più e qualsiasi politico teme pure di utilizzare questo termine, che nell’immaginario collettivo rievoca i cattivi fantasmi del passato. Ed è così che, con l’impetuosa emersione della società liquida e dell’antipolitica, l’unico modo che ha avuto il PD per sopravvivere è di arroccarsi in un vertice forte, burocratizzato, finalizzato alla realizzazione di interessi di governo e quindi lontano da quelle strutture periferiche – i circoli – che hanno voce in capitolo solo quando si tratta di votare alle primarie.

E’ sufficiente entrare in uno dei tanti circoli del PD sparsi per l’Italia e capire che quelle stanze frequentate solo da anziani che giocano a carte sono l’emblema del fallimento di un partito-stato, burocratizzato e incapace di interpretare criticamente la febbrile quanto mutevole mobilitazione propria del mondo contemporaneo. Questa capacità di interpretazione, seppur priva di sintesi critica, è stata ampiamente e magistralmente realizzata dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega Nord di Salvini, i quali – in termini propagandistici – hanno raccolto il malumore, interpretato e tradotto in azione politica, con termini chiari e azioni politiche comprensibili. Passare da ciò all’azione di governo non sarà facile, ma hanno dimostrato di saper concretizzare una delle fasi della vita di un partito: leggere e interpretare la realtà.

La debolezza del PD, come detto, sta nella sua incapacità di leggere la realtà territoriale attraverso le sue strutture periferiche e quindi, con un vertice vecchio, stantio e arroccato nei loft e nelle sedi centrali, è sicuramente facile dargli uno scossone ed emergere. E’ quello che ha fatto Matteo Renzi quando, nel 2010, attraverso i social, indisse a Firenze una kermesse mediatica chiamata “Prossima fermata Italia”, la “Convention dei Rottamatori del PD”, con la quale chiamò in armi tutti i disillusi del PD per rinnovare la struttura dall’interno. Chiaramente il suo obiettivo era quello di emergere, non certo di cambiare un intero partito, e difatti da allora, con un sapiente uso dei mezzi di comunicazione e con toni e modi mutuati dal berlusconismo, salì con facilità ai vertici del partito, fino a diventare Segretario e pupillo destinato a governare l’Italia. Lo fece, come tutti sappiamo, ma senza passare dal vaglio elettorale.

Oggi lo ha fatto e abbiamo visto tutti qual è il risultato. Portare un partito, in pochi anni, dal 40% ad appena il 19% significa fallire miseramente. Del resto era evidente che, con un team di fedelissimi del calibro di Martina, Lotti, Boschi, Del Rio, Nardella e Moretti (sic!) non poteva ambire a qualcosa di più. Non occorre, su questo, sprecare ulteriori parole.

Tutti sappiamo che attualmente non è intenzionato a dimettersi. La colpa non è certo sua. Vuole mantenersi saldo su una poltrona, qualunque essa sia. La colpa, semmai, è del PD, di tutto un partito preda dell’immobilismo e che ha anestetizzato la base impedendogli di esprimere una seppur minima opinione e il vertice, lo ripeto, è talmente stantio e disorientato da essere incapace di cacciare Renzi e il suo entourage a calci nel culo e ripartire da zero, soprattutto ora che sono privi di personaggi politicamente inqualificabili come Bersani, D’Alema e Prodi.

Se non ora, quando? La medicina c’è e si chiama “base”. Il PD è un partito che può ripartire dalla base, dai territori, dall’ascoltare le esigenze della gente e interpretarle criticamente, ma solo dopo aver mandato via l’attuale, fallimentare, vertice. Senza scelte coraggiose volte a ripartire da zero è miseramente destinato a morire.

Lascia un commento