9 maggio 1993

Quando sei grande, ma dalla storia destinato ad essere un piccolo, che vive in una provincia piccola, alla periferia delle periferie, lontano dal mondo che conta e umile tra gli umili intellettuali (perché gli intellettuali, quelli veri, sono umili), sei destinato a morire due volte: la prima è la morte corporea, quella a cui tutti siamo destinati. La seconda è la morte della memoria, quella a cui gli intellettuali – per loro natura – non dovrebbero essere destinati, ma lo sono, per quelle ragioni che – per chi mi conosce – conosce perfettamente.
Ma si muore una terza volta, quando un intellettuale ha la sfiga di morire il 9 maggio, giorno in cui son morti due personaggi illustri: Aldo Moro e Peppino Impastato, il primo fu il più grande statista della DC, ucciso dai suoi stessi compagni di partito, il secondo, invece, fu ucciso dalla mafia (ossia quella che fece gli accordi con quello stesso stato che fece uccidere Moro. Curioso, no?). In un anniversario così triste e illustre allo stesso momento, il nostro intellettuale muore una terza volta.
Muore soffocato da quelle commemorazioni stantie che tentano di ricordare i due personaggi sopra citati tra canzoni e citazioni tratte dai film, muore nell’indifferenza di chi, ormai, non ricorda nemmeno Pasolini, figurati se può ricordare un umile visionario di provincia, per giunta morto in un semplice incidente stradale, muore come morirebbe chiunque, nella vita, non ha lasciato traccia del proprio cammino, muore schiacciato da quella provincia opprimente, che produce esteti e piccolo-borghesi, che mentre – noncuranti – gettano un mozzicone di sigaretta acceso nella sterpaglia sotto il sole d’agosto, professano amore eterno verso il territorio in cui sono nati.
Un intellettuale di provincia muore così.
Antonio Verri è morto così.
antonio_verri
Chiudo con le sue parole, tratte da Il pane sotto la neve.
Provincia è innanzitutto la risultante di numerosissimi e diversissimi elementi, più o meno scoperti, che in essa e da essa prendono forma; provincia è quel paese strano e disperato, attraversato da altrettanto strane, disperate e meravigliose energie. Provincia è anche l’oggetto di una violenza, di uno sfruttamento intellettuale perpetrato da chi ha interesse che sia così e solamente così: violenza e sfruttamento sulla cultura locale, che è mortificata e degradata da una sempre continua concentrazione di potere culturale. Tutto questo, ed anche qualcosa di più, è la provincia. Per noi salentini vi è una mortificazione in più: la rarefazione della nostra espressione, della nostra cultura, delle nostre idee. La nostra provincia è diversa. Siamo tutti ricercatori, esteti e letterati fin dalla nascita. Siamo tutti forensi ed ognuno di noi ha avuto almeno uno zio, un parente fra i componenti le Storie Patrie o le Patrie Lettere. Possibile che noi intellettuali, noi politici, noi economisti non riusciamo a vedere quel che ogni giorno di più diventa macroscopico, sempre più visibile?
Perché continuiamo a proporre, a dar mano a teorie che ci lasciano e lasciano tutti nel vago? Tutti siamo tutti.
D’accordo. Ma per arrivare dove? È molto facile di questi tempi dirci meridionalisti. Però molti tra di noi sono falsi meridionalisti. Il primo verbo della meridionalità dovrebbe essere l’umiltà, quello della salentinità (permettetemi il termine) dovrebbe essere solo questo: rimbocchiamoci le maniche… Abbiamo davanti una brutta gatta da pelare: la nostra provincia. La nostra provincia con tutte le sue cose sane ed autentiche (credetemi, ne sono rimaste) ma anche col suo corpus discontinuo, complesso. Il nostro compito è identificare, è essere chiari. Tutti noi, per dirla con Tommaso Fiore, abbiamo una responsabilità storica precisa: non tradire e operare…

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