Gig economy, chi sono i big che comandano il mercato del food

Per molti la Gig economy è un’opportunità e un’innovazione, per altri, come il Ministro Di Maio, un settore da regolamentare con contratti collettivi o concertazioni con le Aziende. In realtà è solo una nuova veste di un modello che punta allo sfruttamento e che porterà l’economia reale alla stagnazione e a nuovi e sempre maggiori ricatti occupazionali, in mano a poche realtà, sempre più invasive.

Apprezzo lo sforzo di Luigi Di Maio nel volersi sedere al tavolo delle trattative con le aziende della Gig economy, ma finché non si prenderà atto della realtà e non si chiameranno le cose con il loro nome, non ci sarà alcun cambiamento né qualsivoglia trattativa sarà mai posta in essere o, al più, rispettata. Di Maio dice che nel caso salti il tavolo delle trattative, regolerà il settore con Decreto Legge. Potrà farlo? Intanto vediamo di cosa stiamo parlando.

Cos’è la Gig economy?

Gig economy è un termine simpatico, quasi piacevole. Si potrebbe tradurre con economia dei lavoretti e infatti nella narrazione digitale questo termine è largamente usato per indicare il popolo dei ragazzi che, quasi per hobby o per avere giusto una paghetta, lavorano in modo discontinuo, solo su chiamata e quando c’è richiesta, attraverso piattaforme o App dedicate.
Del resto questi termini servono a far affievolire un fenomeno che, se si chiamasse precariato o sfruttamento, parrebbe brutto. Peccato che di fatto è così.

Già, perché non c’è niente di male nella flessibilità. C’è sempre stata, come sono sempre esistiti i lavoretti saltuari. Ma quando, in questa Società, in questo tempo, diventano una necessità, allora la flessibilità non è un’alternativa, ma è un sistema. Da cosa dipende? Dall’oligopolio di grosse realtà aziendali e globali che spolpano la concorrenza e logorano, di fatto, la stabilità del lavoro. Non è un’evoluzione (come molti dicono), ma una scelta sistematica e globale.

Come funziona la Gig economy nel campo della ristorazione?

Nel settore del food, i ragazzi lavorano dunque per delle App che fanno da intermediarie tra il settore della ristorazione e l’utente finale.

Il sistema funziona più o meno così: l’utente scarica l’App sul proprio smartphone, poi sceglie il cibo da ordinare, tra i tanti servizi di ristorazione della città, inserisce l’indirizzo di consegna e, infine, dopo aver pagato, attende il suo meritato cibo. Nel frattempo l’App notifica al ristorante l’ordinazione e al fattorino (nel gergo: rider) la consegna. Attraverso degli appositi algoritmi, basati sulle disponibilità dei riders e su altri fattori, sceglie quello che può garantire la consegna nel minor tempo possibile. Il rider, dopo aver ricevuto la notifica, va presso il locale, ritira l’ordine e lo consegna al destinatario. Il sistema è semplice, veloce e performante. Il rider guadagna dalla consegna, il ristorante (o bar, pizzeria, ecc.) aumenta il suo giro d’affari, la società che gestisce l’app guadagna una percentuale e tutti sono felici.

Sono davvero tutti felici?

A sentir loro (le società che gestiscono le App) si. Dicono che ai rider vanno benissimo sia la flessibilità che la paga e che i ristoratori associati aumentano il proprio fatturato. Peccato che a questi ultimi, a conti fatti, resta ben poco e che i rider, alla fine, riescono a tirare su pochi spicci all’ora. Il resto è tutto guadagno che va a finire nelle tasche delle Società che gestiscono le App e che, a occhio, arrivano a guadagnare tutte cifre come 15 miliardi di euro all’anno (fatturato complessivo). Mica male, eh? Peccato che – come il buon vecchio sistema capitalista impone – quei soldi vanno a finire ai soliti noti (leggasi: sfruttatori), mentre gli altri, cioè lavoratori e fornitori (leggasi: sfruttati) si trovano le briciole. Loro fanno la fatica (cucinano, preparano, consegnano), mentre gli altri, i padroni (che gestiscono le App e che, vedremo tra poco, fanno capo a grosse holding internazionali) si beccano il grosso della fetta. Praticamente, rispetto al feudalesimo medievale, in cui il contadino era costretto a versare la decima (sotto forma di raccolto, animali e prodotti animali) al signore feudale e anche alla Chiesa, non è cambiato granché. Voi direte che è giusto riconoscere una percentuale a chi fornisce il servizio, certo. Ma quando questa va dal 15 al 30% dell’ordine e se togliamo al ristorante i costi di gestione e le tasse, a loro resta ben poco. Ai rider ancor meno. Dunque lo squilibrio tra chi lavora (ristoranti, fattorini) e chi gestisce l’App è enorme.

La fregatura del lavoro autonomo e dei co.co.co.

Voi direte: ma in Italia ci sono le tutele sindacali, le garanzie, i contratti collettivi. Quelli – miei cari – valgono solo per i piccoli. Cioè, se io decido di aprire un sito di e-commerce e inizia ad andarmi bene, devo assumere personale. Ma tra contrattazione collettiva, tutele, malattie, tredicesime e quattordicesime, ferie, contributi INPS e salvaguardie INAIL, dovrò spendere per ogni lavoratore tra le 1500 e le 2000 euro al mese (Euro più euro meno, in base al tipo di contratto e alle ore di lavoro, anche molto di più) e dovrò versare all’erario le tasse per l’IRPEF, dovuta per la differenza tra costi e ricavi. Oltretutto pagherò il mio dipendente anche durante le fasi di flessione del mercato, ossia in quei periodi in cui si lavora di meno (e si guadagna di meno, ma i costi fissi restano gli stessi).
Queste aziende no, anzitutto perché tutti i ricavi vengono spostati nei paesi in cui hanno la sede legale (dappertutto, tranne che in Italia) o in paradisi fiscali e poi perché ai lavoratori offrono (anzi: impongono) forme di collaborazione flessibile e occasionale, cosa che al piccolo imprenditore, di fatto, non è concessa.
Precisiamo meglio.
I ragazzi che lavorano per queste app sono autonomi, cioè alcuni di loro non hanno alcun tipo di regime fiscale, mentre altri lavorano come autonomi. In base al core business di ogni società, troviamo lavoratori assunti come co.co.co., come collaboratori esterni (dipendenti di società terze, cioè che sono assunti da agenzie e vengono somministrati alle società che gestiscono le App), oppure come niente cioè ragazzi che non godono di alcun regime fiscale. Sono in nero? Non proprio, sono solo collaboratori occasionali. In questo caso, se si danno da fare e lavorano tanto e arrivano a guadagnare più di 5.000 euro all’anno, sono costrette ad aprire una Partita IVA. Se l’Azienda non li prende con altri contratti (tipo co.co.co. o co.co.pro.), devono aprire la Partita IVA e quindi assumersi tutti i rischi della gestione d’impresa. Di fatto sono dipendenti delle aziende per cui lavorano, ma fiscalmente sono autonomi. Possono decidere turni di lavoro, tipo di salario, insomma, tutto. Più o meno.

Possono decidere tutto?

Di regola si. Questo è il vantaggio della flessibilità. Di fatto, se vogliono guadagnare devono essere sempre disponibili e schiavi delle notifiche. Già, quelle notifiche che arrivano al fattorino quando dovrà consegnare l’ordine al cliente. Ma può capitare che il fattorino sia impegnato in altre faccende oppure sia in malattia (non pagata) o in ferie (non pagate). In questo caso l’algoritmo sceglie un altro fattorino e, in base ai suoi calcoli matematici, crea una sorta di ranking di disponibilità e affidabilità del lavoratore. Risultato? Il fattorino riceverà meno notifiche, quindi meno lavoro.
E’ una sorta di catena di montaggio 2.0, quella che – per fare un esempio cinematografico – l’operaio Lulù, in La classe operaia va in paradiso, accetta a tal punto da velocizzare sempre più il suo lavoro a cottimo (ossia viene pagato per ogni pezzo prodotto), tanto da costringere gli altri lavoratori a seguire i suoi ritmi incessanti di lavoro. In altre parole è una sorta di competizione tra sfruttati: chi lavora di più, avrà più lavoro, chi invece non può (per malattia, altri impegni, ecc.) sarà declassato, fino ad arrivare a sloggare il lavoratore, neologismo che sta per terminare la collaborazione. Ma chiudere il login con il collaboratore suona meglio che licenziare.
E a proposito di cottimo, nel 2016 i fattorini torinesi di Foodora hanno scioperato quando l’azienda ha adottato il cottimo, passando da un compenso orario di 5,00 € lordi a uno di 2,70 euro a consegna. E attenzione, 2,70 € (più o meno) è la commissione che paga il cliente all’App per ricevere il pasto. Quindi l’azienda non ci rimette nulla, il suo profitto è pulito. Anche i costi del trasporto sono ridotti all’osso per le aziende, le quali sostengono di rimborsare il costo della benzina dei mezzi di proprietà dei rider, tuttavia i rimborsi vanno da 10 a 30 centesimi a km e il calcolo viene fatto sempre dall’algoritmo sulla base del percorso ottimale (stimato, immagino, da Google maps), ma in una città come Roma o Milano o Torino, dove tra semafori, traffico, strade interrotte, percorsi alternativi, questo calcolo può valere? No, e infatti spesso questi ragazzi ci rimettono anche in benzina (che cacciano di tasca loro) e spese quali la manutenzione del mezzo non sono previste. Chiaramente nemmeno le spese mediche sono previste nel caso in cui – faccio un esempio – un rider perda una gamba durante l’orario di lavoro.

La fregatura delle recensioni

Qualsiasi recensione voi facciate su queste App, sappiate che ve la prendete con i deboli. A loro, che macinano soldi a palate (i vostri) non importa. Perché voi ve la prenderete sempre con il ristoratore o con il rider, perché magari hanno tardato un po’ o perché hanno sbagliato l’ordinazione. In altre parole le nostre recensioni non scalfiscono minimamente queste Società, le quali, anzi, le useranno come ricatto nei confronti di fornitori e lavoratori.

Le Aziende della Gig economy

Qualcuno direbbe che quelli proposti da Deliveroo, Just EAt, Foodora, Domino’s Pizza e Glovo (e poi, in maniera diversa, Amazon, Google, Facebook, ecc.) sono a tutti gli effetti dei lavoretti. Questo è ciò che vogliono farci credere. Come ci fanno credere di essere App giovani e trendy, fondate da giovani capaci ed esperti della web-economy. Ma dietro a queste realtà ci sono società di capitali, holding, società finanziarie e tutto un sistema connesso che ruota intorno ai soliti paesi capitalisti: USA, Inghilterra e Germania in testa. Deliveroo, per esempio, ha sede a Londra ed è stato fondato da Will Shu (americano) e Greg Orlowski (americano), mentre Domino’s Pizza ha sede in Michigan, Stati Uniti e il suo CEO è un certo J. Patrick Doyle, un ex pezzo grosso della First Chicago Bank e direttore del Best Buy.
Quindi non mi si venga a dire che tutto dipende dalla capacità di chi ha inventato l’App, perché è una falsa illusione della web-economy, ormai basata sulla regola aurea dell’economia capitalista: pochi e grossi investitori che finanziano continuamente queste realtà, per spingerle al massimo ed eliminare ogni forma di concorrenza. Lo stanno facendo, nel settore delle tecnologie, Google e Apple, come nel settore dei beni di consumo Amazon e, nel settore dell’intrattenimento, Facebook. Nel settore della ristorazione è opportuno soffermarsi su questi due esempi:

Just EAt

Come altre Società ha sede a Londra e fu Fondata da Jesper Buch, Henrik Østergaard, Christian Frismodt e Per Meldgaard (danesi). Non si sa molto su come abbia ricevuto i finanziamenti, ma sappiamo che nel 2011 ha costituito una joint venture in India. In poco tempo il Gruppo ha raccolto 48 milioni di dollari e ha iniziato l’espansione in gran parte d’Europa e del continente americano. Come sappiamo nel 2016 ha acquistato ed inglobato i marchi HelloFood Italia e PizzaBo, un’operazione che, insieme all’acquisizione di altre attività, è costata 125 milioni di euro. Cifra irrisoria se si pensa che in base ai loro calcoli, il mercato del food in Italia vale circa 2 miliardi all’anno. Ora, lungi dal dire che queste operazioni di finanziamento e di costituzione di holding internazionali siano sospette, l’aspetto che più emerge e per cui si può trovare una risposta semplice è che c’è interesse, da parte di pochi gruppi finanziari sparsi nel Mondo, a controllare il mercato globale. Non so voi, ma se io dovessi richiedere in banca un finanziamento di 10.000 euro, mi chiedono la casa come garanzia. Queste attività invece ricevono milioni così, a josa. Ma Just Eat non è l’unico, vediamo l’esperienza di Foodora.

Foodora

E’ un marchio di proprietà di Delivery Hero. Qui occorre perderci un po’ di tempo, perché la storia è davvero interessante.
Delivery Hero Holding è stata fondata da Niklas Östberg, Kolja Hebenstreit, Markus Fuhrmann e Lukasz Gadowski nel maggio 2011, con l’obiettivo di trasformare Delivery Hero in una piattaforma di ordinazione alimentare online globale. Delivery Hero si espande prima in Australia, poi nel Regno Unito nel 2011, nel 2012 in Germania e in Svizzera e, nel 2013, in Corea del Sud e in Cina attraverso YoGiYo e Aimifan.

Come hanno fatto?

Nel novembre 2011, Delivery Hero ha ricevuto il suo primo finanziamento da parte di Team Europe, Holtzbrinck Ventures (che possiede anche Flixbus), Tengelmann Ventures (uno dei principali investitori di venture capital in Germania), Kite Ventures e ru-Net (una holding russa), i quali hanno investito insieme 4 milioni di euro. Il secondo giro di finanziamento è avvenuto ad aprile 2012. Questa volta gli stessi investitori hanno aumentato i loro investimenti di 25 milioni di euro per sostenere la crescita internazionale dell’impresa. Ancora, nell’agosto 2012 Delivery Hero ha ricevuto altri 40 milioni di euro finanziati principalmente da Kite Ventures e Kreos Capital (società di capitali che finanzia aziende in Europa e Israele). Un altro step di finanziamento ha dato alla Società 30 milioni di dollari da Phenomen Ventures.
Se andiamo a spulciare le attività di queste holding finanziarie scopriamo che possiedono numerosi interessi in molte aree del Mondo e li ritroviamo a gestire o controllare realtà economiche molto diversificate. Ovvio dire che queste connessioni (tra Germania e Israele, Germania e USA, Russia e Germania, ecc.) sono l’effetto della globalizzazione, alla faccia dei finti proclami in materia di dazi o delle scaramucce ai vari G7 tra i governanti del mondo. L’economia virtuale è anni luce lontana dalla politica e fa affari nonostante noi crediamo ancora ai “blocchi” tra le aree del Mondo.
Insomma, è facile immaginare che con questi cospicui finanziamenti, ogni forma di concorrenza è destinata a morire. Poi è sufficiente un incontro al vertice tra poche persone per fare cartello, cioè per imporre, tramite le App, costo del lavoro, contratti di fornitura e condizioni, per cui ogni forma di concorrenza – anche tra di loro – è meramente apparente.

Le illusioni della web-economy

Hai una buona idea? E magari vuoi investire sul web, come hanno fatto in tanti prima di te. A leggere le tante guide di esperti più o meno improvvisati, che spopolano sui social, si capisce che basta tanta inventiva e l’uso sapiente della tecnologia per ottenere lead, conversioni, guadagni. Ma hai notato che senza adeguati finanziamenti non riuscirai mai ad emergere nel mercato del web? Fino a un decennio fa era possibile, oggi non più.

Google, Amazon e Facebook dove li mettiamo?

Quando si parla di Gig economy o, in generale, di web-economy, non si può prescindere da questi Big, perché altrimenti vedremmo solo una porzione del problema e non la realtà nella sua totalità.
Mentre Google, Amazon, Facebook e queste numerose App (ma che fanno capo a poche holding) crescono, gli stipendi medi non crescono e il PIL cala. Già, perché i profitti vengono spostati in paradisi fiscali o negli stati di provenienza e reinvestiti, mentre è facile fare cartello per falsare la concorrenza e, quindi, pagare meno chi lavora per queste realtà o in aziende da essi controllate.

Basta pensare che Apple, con un fatturato da più di 220 miliardi di dollari, paga lo 0,005% di tasse in Irlanda, almeno fino al 2020. Airbnb l’anno scorso a fronte di un fatturato di 2,6 miliardi di dollari nel 2017 ha pagato meno di 90mila euro l’anno. Uber Tecnhologies Inc, con sede nel paradiso fiscale americano del Delaware, ha creato la sua sussidiaria Uber International Cv: una società di diritto olandese con sede nelle Bermuda, dove confluiscono i soldi delle corse effettuate fuori dagli States. Uber International in pratica versa alla casa madre 1,45% sui futuri guadagni in cambio del diritto di utilizzare la sua app. Così di una corsa da 100 euro, 75 vanno al guidatore che ci dovrà pagare le tasse, 25 euro vanno a Uber B.V che trattiene l’1%, sottratti i costi, e trasferisce il resto a Uber International C.V come royalty non tassabili, secondo le leggi olandesi. Quindi dei 25 euro, 24 e 75 sono guadagni e i 25 centesimi rimanenti sono reddito tassabile in Olanda. Staglianò scrive nero su bianco: “Imposte come quelle di Airbnb e degli altri campioncini della gig economy che mancheranno all’appello per mantenere le strade e potenziare i mezzi pubblici. Un buco potenziale da 3,5 miliardi di sterline, da oggi al 2021, ha annunciato il cancelliere dello scacchiere Philip Hammond citando stime dell’Officer for budget responsability” (fonte: Agenzia DIRE).

Regolare il settore con Decreto Legge (e non vedere la realtà nel suo complesso)

Luigi di maio

Per finire voglio tornare a riflettere sul tavolo delle trattative aperto da Di Maio con le realtà della Gig economy. Sarà un fallimento. Non perché lui non sia capace di mediare, ma perché – anche se si dovesse giungere ad un accordo – non ci sarà alcun cambiamento. Inoltre attendo fiducioso il fallimento delle trattative per leggere il “Decreto dignità” annacquato e privo di quelle tutele tanto sbandierate per dire a me stesso che avevo ragione.
Già, perché da un lato non si può discutere di Gig economy senza guardare la realtà in cui nasce e dall’altro non si può intaccare un core business di portata globale (flessibilità, condivisione, costo basso del servizio all’utente finale, ecc.) a colpi di Decreto Legge. Ha fatto bene Di Maio a sollevare la questione, ma questa è una tematica squisitamente politica da affrontarsi in sede europea e nelle sedi internazionali opportune. Ad ogni modo, prima di dare un giudizio definitivo, attendo gli sviluppi della faccenda, fiducioso che, comunque sia, almeno se ne sta parlando.

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