Il turco capitalismo

Gli algoritmi e l’intelligenza artificiale, per quanto complessi, sono però il frutto del lavoro umano, in particolare di milioni di persone invisibili che vengono sfruttate dal turco capitalismo, nell’ottica di un’automazione spesso illusoria. A margine di queste brevi considerazioni, un commento alla proposta di L.R. Lazio “Norme per la tutela e la sicurezza dei lavoratori digitali”.

Turco capitalismo è un titolo in parte provocatorio in parte risultante da un’analisi della realtà del lavoro digitale, che si basa su un invisibile sfruttamento del lavoro ad opera di piattaforme digitali che si servono della destrutturazione del mercato del lavoro al fine di pagare sempre meno a fronte di prestazioni intellettuali (e manuali) sempre più evolute, specifiche, diffuse e flessibili.

Il nome, in realtà, prende origine da quello che viene definito Amazon Mechanical Turk, il Turco meccanico di Amazon, ossia un sistema composto da circa mezzo milione di lavoratori, sparsi nel mondo, che hanno il compito di catalogare, moderare contenuti, classificare, scrivere codici di programmazione ed effettuare tutta una serie di attività finalizzate a rendere più performanti gli algoritmi di Amazon.

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Come funzionava la macchina del Turco

Il nome è ambivalente, dato che fa riferimento al Turco, una macchina progettata nel 1700 per sfidare gli umani al gioco degli scacchi ma che in realtà, al suo interno, nascondeva un umano (Approfondisci), mentre il suo secondo significato – più razzista (e più realistico) – richiama alla mente un termine usato in Germania fino a poco tempo fa, quando ai Turchi erano destinati i lavori più umili e alienanti.

Questo sistema, però, non è usato solo da Amazon, ma da numerose piattaforme (Uber, Airbnb, per esempio) e da tutti i big della rete, che condividono tra di loro un aspetto curioso e grottesco: sono multinazionali del web, operano in tutto il mondo, hanno una struttura digitale immensa, piattaforme che comprendono miliardi di utenti, ma hanno poche decine di dipendenti. Mi riferisco in particolare a Facebook, Google e, chiaramente, Amazon. Come fanno? Anche loro si servono dei turchi meccanici, collaboratori sparsi nel mondo che, con il loro lavoro, aumentano le funzionalità degli algoritmi e ne perfezionano l’efficacia. Non sono assunti, né sono in numero fisso, tutto dipende dalla domanda, dalle esigenze dell’Azienda e dal carico di lavoro che in certi periodi può essere maggiore o minore e la domanda/offerta s’incontra su apposite piattaforme digitali.

Un cottimo 2.0

Il loro lavoro, al pari di quello dei rider (che rappresentano una piccolissima fetta dei lavoratori digitali e che oggi è al centro del dibattito politico italiano), è una sorta di cottimo 2.0, per cui ad ogni compito concluso gli viene corrisposto un misero contributo (può variare da pochi centesimi a poche decine di euro/dollari, in base al tipo di lavoro), che non dipende dall’impegno profuso né dalle ore di lavoro svolte, bensì dal risultato. E’ cottimo, insomma. Alcuni lavori richiedono anche 10-12 ore davanti ad un PC, a scrivere codici, a catalogare contenuti oppure a inserire dati e finché il lavoro non è concluso, inviato e giudicato utile ed efficace, il lavoratore non riceverà alcun salario e, anche nel caso in cui il freelance svolgesse correttamente il suo lavoro non è detto che verrebbe pagato, dato che tutto dipende da presunte valutazioni fatte sia dal cliente sia dal committente sia da eventuali sub-appaltatori.

Facciamo un esempio. Google si rivolge a una web-agency che a sua volta si rivolge a uno sviluppatore freelance per sviluppare un codice per un’App. Se Google non è soddisfatto del lavoro, lo contesterà alla web-agency che a sua volta lo contesterà al freelance, il quale, nella disputa, non verrà pagato e riceverà una valutazione negativa, il ché presuppone che si piazzerà in un ranking (il sistema delle valutazioni, per usare un termine più comprensibile) che determinerà le sue possibilità lavorative future in quella specifica piattaforma e in altre (dato che altri possono accedere alle valutazioni).

Il sistema delle valutazioni

Come sappiamo le valutazioni sono un sistema che misurano il grado di apprezzamento di un prodotto/servizio. Quando le usiamo stiamo inconsapevolmente valutando non tanto il prodotto o il servizio in sé, quanto il lavoro che ci sta dietro. Noi lasciamo una valutazione, per esempio, dopo aver usato Google Maps oppure dopo aver tradotto un testo con Google Translate o, ancora, quando valutiamo su Facebook se una FAQ ha la risposta alle nostre domande o se, su PayPal, la transazione è stata semplice o, ancora, se su Subito.it è stato facile inserire un annuncio.

 

Le valutazioni, quindi, servono alle Aziende digitali per capire se il lavoro che c’è stato dietro quel servizio/prodotto sia idoneo allo scopo per cui è stato ideato. La media delle valutazioni degli utenti e delle valutazioni interne dell’Azienda contribuirà a creare un ranking in cui il lavoratore freelance è inserito. Tanto sarà più bassa tanto minori saranno le aspettative di lavoro di quel collaboratore e tanto minori saranno le possibilità di ricevere un compenso, anche a fronte delle ore di lavoro prestate.

Vista in una certa ottica, questa funzione è importante per valutare le capacità del lavoratore, ma non sempre sarà così. Anzitutto non sempre ciò che cerca l’utente è in linea con ciò che viene offerto. Detto in altri termini può darsi che l’utente valuterà il servizio/prodotto in base ad una sua rappresentazione che può essere diversa da quella prospettata dall’Azienda e trasferita al lavoratore.

Inoltre l’obbligazione di risultato (a cui il cottimo è assoggettata) presuppone che sia ben chiaro e preventivamente definito l’obiettivo e che non sia lasciato all’aleatorietà del rapporto obbligatorio, ossia ad un elemento incerto rappresentato, in questo caso, dalle valutazioni degli utenti.

Quindi, in un certo senso si può dire che il rapporto che s’instaura tra l’Azienda e il collaboratore, attraverso la piattaforma, è un rapporto di tipo aleatorio-predatorio, in cui il primo offre un lavoro dai contorni incerti e ha il potere di elargire o meno la remunerazione, mentre il secondo svolge il suo compito senza la certezza di quanto tempo ci impiegherà e, al termine, non avrà alcuna garanzia di ricevere il compenso, il quale, ad ogni modo, non è parametrato all’impegno profuso e alle competenze impiegate.

Dunque l’aspetto predatorio sta nel fatto che manca l’aspetto obbligatorio da una delle parti. Non è quindi un rapporto contrattuale (paritario, sinallagmatico), ma, appunto, predatorio, in cui il frutto del lavoro del freelance sarà nelle mani dell’Azienda, che ne trarrà comunque profitto indipendentemente dal tipo di valutazione ottenuta e facendo leva, appunto, sul ranking come forma di ricatto.

L’algoritmo è solo un’illusione

La narrazione digitale per cui ogni aspetto della vita del web è regolato da potentissimi algoritmi è una pia illusione.

L’intelligenza artificiale è arrivata a livelli tecnologici molto evoluti, ma si basa sempre sul lavoro umano per progredire. Pare ovvio dire che per gestire il nostro ordine su Amazon ci sono frotte di operai della logistica e fattorini che processano, impacchettano e consegnano il nostro pacco. E’ scontato, ma dietro l’illusione dell’automazione sembra che ce ne scordiamo. Come è inutile dire che dietro le risposte automatiche di Google, Facebook e Amazon c’è tutto un sottobosco composto da persone senza le quali il processo non ci sembrerebbe automatizzato.

Sarebbe altresì scontato dire che dietro le recensioni o le domande/risposte di Amazon c’è un esercito di Turchi che moderano, rispondono, recensiscono oppure che dietro la SERP di Google (ossia la pagina in cui vengono mostrati i risultati di ricerca) ci sono migliaia di informatici che valutano le ricerche, le pagine, i contenuti e determinano il loro grado di coerenza rispetto alle chiavi di ricerca inserite dagli utenti, indicando a Google i risultati al fine di migliorare gli algoritmi.

Dunque quando sentite parlare di innovazione, evoluzione, intelligenza artificiale, macchine che si guidano da sole o nuovi modelli di business in grado di sfruttare le tecnologie per generare valore, sappiate che il vero valore viene generato sempre e comunque dall’intelligenza umana, un’intelligenza diffusa, parcellizzata e precarizzata, frutto del lavoro sottopagato di milioni di persone che, individualmente ma virtualmente connesse, producono nel silenzio delle loro camerette lo stupor mundi dell’ecosistema digitale rappresentato dagli algoritmi e collocato sul network in cui i carnefici stessi sono proprio gli utenti, che, attraverso le valutazioni anonime, abbassano sempre più il ranking del diritto ad un lavoro che assicuri un’esistenza libera e dignitosa.

Proposta di legge regionale “Norme per la tutela e la sicurezza dei lavoratori digitali” della Regione Lazio

Nicola Zingaretti
Nicola Zingaretti, Presidente della Regione Lazio

Fa piacere sapere che gli aspetti essenziali del lavoro digitale siano entrati nel dibattito politico nostrano, soprattutto negli ultimi tempi e che, parallelamente al pregevole tentativo del Ministro Di Maio di dialogare con le Aziende digitali del food al fine di tutelare i rider, la Regione Lazio abbia approntato una normativa ad hoc per regolare il lavoro digitale nel proprio territorio. La norma è attualmente una proposta di legge e verrà discussa nei prossimi giorni, ma intanto colgo l’occasione – al netto di eventuali emendamenti – di commentare giusto un paio di articoli che per me rappresentano una criticità in un impianto normativo tutto sommato ragionevole e non privo di potenziale efficacia. Dico potenziale perché non sono affatto convinto che un’economia digitale di portata globale possa essere regolata a colpi di leggi o decreti legge. Ad ogni modo condivido la necessità di discutere di web-economy, gig-economy e capitalismo di piattaforma al fine di regolare o tentare di porre un argine al dilagare di un’economia virtuale che produrrà gli stessi nefasti effetti del capitalismo industriale. Solo che, rispetto ad allora, gli attuali lavoratori sono invisibili e, stante così la realtà, difficilmente sindacalizzabili e quindi vittime di attacchi predatori ad opera del mercato digitale di stampo capitalistico.

La proposta di legge può essere letta qui nel suo testo integrale.

Mi soffermo a commentare solo due norme e precipuamente l’art. 3, rubricato “tutela della salute e della sicurezza” nonché l’art. 5, rubricato “compenso e indennità speciali”, in quanto mi auguro che le critiche che muoverò possano contribuire al dibattito volto ad aggiustare il tiro di una legge largamente condivisibile e che potrebbe essere da sprone per ulteriori interventi normativi, magari di carattere nazionale ed europeo.

Art. 3 comma 1

L’art. 3.1 così recita: “La Giunta regionale individua con deliberazione le misure di tutela della salute e della sicurezza del lavoratore digitale, sentito il Comitato regionale di coordinamento di cui all’articolo 7, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e con il coinvolgimento delle piattaforme che operano nell’ambito del territorio regionale.

Vorrei soffermarmi in particolare sull’ultimo periodo del comma in questione.

Stando alla lettera della norma, ciò starebbe a significare che i destinatari della normativa sono anche le aziende (piattaforme) che hanno sede o comunque svolgono la propria attività nel territorio laziale.

La norma, così come impostata, è assolutamente inefficace e non scalfisce minimamente l’operato di tali piattaforme, le quali operano sul mercato virtuale (e dunque, potenzialmente, in tutto il Mondo) e hanno sede fisica in altri Paesi europei ed extra-europei. Cosa diversa sarebbe stata se la norma fosse stata formulata in tal senso: “con il coinvolgimento delle piattaforme che si servono di collaboratori (lavoratori digitali) che risiedono o operano nell’ambito del territorio regionale”. In questo caso la norma sarebbe stata più efficace in quanto avrebbe messo al centro dell’ambito d’applicazione il collaboratore (lavoratore) e non la piattaforma. Del resto il termine “operare” dà adito a numerose interpretazioni e si potrebbe obiettare che l’Azienda opera sul mercato digitale e non sul mercato fisico e che il fatto che la sua opera produca i suoi effetti nel territorio di riferimento non sia sufficiente ad estendere l’ambito di applicazione di tale norma nei confronti della piattaforma stessa.

Art. 5 comma 3

L’ultimo comma dell’art. 5 così recita: “Il compenso non può in ogni caso essere stabilito a cottimo”.
Questa disposizione lascia perplessi, in quanto pare più essere mossa da intenti propagandistici che da reali misure volte al bilanciamento degli interessi di lavoratore e datore di lavoro. E’ evidente che è interesse dell’Azienda che il lavoratore addivenga ad un risultato, ecco perché il Codice Civile (art. 2099) stabilisce che la retribuzione può essere stabilita a tempo o a cottimo. Quando è a tempo la retribuzione è rapportata al periodo lavorativo a prescindere da quanto è stato eseguito. In questo caso, dunque, la prestazione lavorativa non è oggetto di una obbligazione di risultato. Invece è a cottimo quando la retribuzione viene rapportata all’osservanza di un determinato ritmo produttivo o quando la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato delle misurazioni dei tempi di lavorazione (art. 2100). Dunque si tratta di una obbligazione di risultato, che consiste nell’obbligo di giungere ad un certo risultato alla fine del processo di lavorazione.

Lungi da me il voler difendere gli interessi del turco capitalismo, ma è evidente che tale norma entra in contrasto con la legislazione ordinaria (di rango superiore) e che è squilibrata a favore del lavoratore, in quanto è interesse del datore ottenere un risultato (es. che un codice funzioni) ed è obbligo del lavoratore fornire la sua prestazione materiale o intellettuale per giungere al risultato dovuto. Dunque la norma sarebbe corretta se fosse formulata, ad esempio, in questo modo: “il compenso può essere stabilito a cottimo purché venga garantita una retribuzione oraria minima determinata dai contratti collettivi di lavoro sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative”. Ad ogni modo andrebbe messo in rilievo che il cottimo non può mai essere subordinato ad alcuna forma di valutazione aleatoria e il risultato dell’obbligazione dev’essere definito preventivamente.

Detto ciò credo che l’impianto complessivo della norma sia coerente e molto condivisibile. Resta sempre da sciogliere il nodo su come si possa obbligare ed eventualmente sanzionare un CEO di una piattaforma che magari opera dall’altra parte del Mondo e non ha alcun interesse a sottostare a delle norme regionali. Magari, forse, l’unico rimedio sarebbe quello di prevedere, come sanzione, la disconnessione della piattaforma nell’ambito territoriale di applicazione della norma. Una sanzione del genere sì che potrebbe destare un timore di perdita di quote di mercato, l’unica forma di sanzione che davvero farebbe paura ai fautori della web-economy turco capitalista.

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