La Via della Seta ovvero pesce grande mangia pesce piccolo

Senza retorica e con i piedi ben piantati nella realtà, posso affermare che oggi si sta decidendo il futuro del Mondo e i nuovi equilibri geo politici che, se mal gestiti, porteranno a squilibri i cui effetti si riverberanno nei prossimi secoli.
L’Italia è debole se fa accordi da sola e rischia di diventare una colonia di fatto e di essere stritolata secondo la logica del pesce grande mangia pesce piccolo.
Se Di Maio, Conte e la maggioranza parlamentare che ieri ha votato favorevolmente la sottoscrizione del Memorandum d’intesa con la Cina hanno una visione strategica che non arriva a 5 anni, Xi Jinping (il presidente della Cina) ha una visione che va oltre un secolo e che parte dal secolo passato, dai suoi predecessori.
Quello che oggi sta accadendo porterà ad uno scontro tra due visioni diverse del Mondo, con un modello occidentale gradualmente sostituito secondo la visione di Pechino oppure ad una nuova guerra fredda nell’ambito di un bilanciamento di poteri tra Usa e Cina, oppure ad un modello di coabitazione forzata tra il modello occidentale e quello orientale. Gli sviluppi futuri dipenderanno dalle decisioni prese oggi e l’Italia sta inconsapevolmente schierandosi senza considerare tutti gli aspetti di questa epocale svolta.

Per capire meglio ciò che sto dicendo, dobbiamo anzitutto capire cos’è la via della seta, perché l’Italia è importante, il ruolo dell’Europa, l’importanza del 5G e tanti altri aspetti di quello che non è un semplice accordo economico, ma un piano economico-diplomatico-politico-culturale che trova le sue radici nel passato e che oggi ha preso un’accelerata a causa della debolezza dell’Europa e della schizofrenica politica economico-diplomatica di Trump. In altre parole la via della Seta è un progetto che avrebbe dovuto svolgersi con più calma, ma gli ultimi sviluppi hanno dato alla Cina l’incipit che le serviva per accelerare il tutto. Ma intanto vediamo cos’è.

Cos’è la via della seta?

Via della seta è un nome evocativo, nato in onore di Marco Polo e della Serenissima, che ricalca l’antica via della seta, ma è anche un nome fuorviante, perché in realtà le vie della seta sono due, una terrestre (Silk Road Economic Belt) con sei corridoi e una marittima (Maritime Silk Road), anche se nei piani della Cina c’è una Silk Road Aerea che consentirà alle merci di raggiungere zone non coperte dalle vie terrestri e marine.
La via terrestre – Silk Road Economic Belt – collegherà non solo i centri produttivi della Cina meridionale ai mercati di consumo europei tramite ferrovia attraverso l’Asia Centrale (Kazakhstan) ma anche la Russia alla Turchia, passando per Pakistan e Iran, e all’India, tramite il Sud-Est Asiatico (Thailandia e Myanmar).
La direttrice marittima permetterà invece alle merci cinesi di raggiungere il Mediterraneo attraverso Suez, estendendosi fino alle coste dell’Africa Orientale (Gibuti, Kenya e Tanzania) e al Maghreb, e il resto dell’Asia tramite il Mar Cinese meridionale.

Nell’insieme il progetto si chiama Belt and Road Initiative (questo è il nome ufficiale), è gigantesco e comprende numerose infrastrutture (porti, strade, ferrovie, ecc.) e numerosi centri di connessione diplomatico-militare, oltre a tratte marittime nuove che arrivano praticamente in ogni parte del globo.

Si basa essenzialmente su due principi: imporre sul piano mondiale il proprio sviluppo tecnologico e allargare il piano d’azione commerciale.

Corollari di questi principi sono: l’approvvigionamento di materia prima, gas, petrolio ed energia, il controllo e la gestione delle principali infrastrutture in Asia, Africa ed Europa (non a caso ha già acquistato o ottenuto porti nel Pireo, in Spagna, in Sri Lanka e nelle zone strategiche dell’Africa), nonché – cosa più importante – la realizzazione di progetti di connettività infrastrutturale che si sintetizzano nel concetto di 5G (e che tra poco vedremo meglio).

Dunque la via della seta non è un progetto di infrastrutture, come molti – in cattiva fede – vogliono far credere, ma è un complesso piano di influenza geo-politica capace di rimodellare gli equilibri mondiali e i principi su cui si fonda l’Occidente (buoni o cattivi che siano), mantenendo in piedi, però, il sistema capitalistico, a tutto vantaggio della Cina (nel prosieguo questo concetto si capirà meglio).

Quando è iniziato il progetto della via della seta?

Va detto che l’idea, ufficialmente, è nata nel 2013, ma in realtà è molto più vecchia e può trovare le sue radici nei primi anni Novanta, in concomitanza con l’apertura del regime comunista cinese al mercato globale. Da allora ad oggi si è sviluppata con la lenta emigrazione cinese in Europa e ha trovato il suo naturale sbocco nella Belt and Road Initiative.

Nell’ottobre del 2017 la BRI è stata inserita nella costituzione cinese e anche questo passaggio dimostra che non si tratta solo di un’infrastruttura, ma di un progetto con finalità politiche, giuridiche e culturali molto più ampie.

Quanto costa la via della seta?

Nel triennio 2014-2017 per la Nuova Via della Seta la Cina ha investito 70 miliardi di dollari in 1.400 progetti, per la generazione elettrica e la costruzione di ferrovie, porti, strade e parchi industriali. Sono in programma ulteriori investimenti per 130 miliardi di dollari l’anno fino al 2022 e, oltre al governo cinese, sono coinvolte le principali banche: Banca Centrale, Banca Popolare Cinese (PBOC), Banca della Cina (BOC), Banca Cinese per le Costruzioni (CCB), Banca Cinese per l’Agricoltura (ABC), Banca Cinese per l’Industria e il Commercio (ICBC).

Quali sono le rotte della via della seta?

mappa via della seta
la mappa della via della seta

Come si vede dalla mappa, esistono tre rotte terrestri che si articolano in diversi corridoi, alcuni già costruiti, altri in fase di costruzione, senza considerare le infrastrutture che si stanno costruendo in Africa ed Europa. Inoltre esistono due rotte marine e una terza in fase di implementazione, sfruttando lo scioglimento dei ghiacciai (è quella che attraversa il mare artico).
Dalla legenda si nota che le linee tratteggiate in rosso sono le linee ferroviarie già costruite, mentre quelle in rosa sono da costruire. In verde e in giallo vediamo i gasdotti e gli oleodotti (già realizzati e da realizzare), mentre le linee tratteggiate gialle sono le vie della seta terrestri e quelle verdi sono le vie della seta marittime. I quadratini blu rappresentano i porti che, di fatto o di diritto, sono o saranno sotto il controllo cinese.

Paesi coinvolti

Al momento sono coinvolti 65 paesi e circa il 63% della popolazione mondiale, ossia 4,4 miliardi di persone. L’obiettivo è di arrivare almeno a 70 paesi. Da questi numeri si capisce a impatto la proporzione del progetto nonché gli immensi guadagni che deriveranno dall’apertura a così tanti mercati e alle fonti di approvvigionamento delle materie prime, di cui la Cina ha un disperato bisogno.

Perché l’Italia è importante?

xi jinping e mattarella via della seta
Foto Ufficio Stampa Quirinale/Francesco Ammendola/ Domani, 21 marzo 2019, inizia la visita di Xi Jinping in Italia.

Non è un mistero che nel concretizzare il maestoso progetto, il presidente cinese Xi Jinping stia coinvolgendo paesi ad economia stagnante, presi isolatamente e deboli dal punto di vista geo politico, come non è un segreto che il progetto abbia subito un’accelerata significativa in concomitanza proprio con la crisi politica che sta attanagliando l’Europa e che la sta lentamente frammentando. E’ su questa debolezza che la Cina ne approfitta per arrivare a singoli accordi, promettendo a tutti i paesi coinvolti l’apertura al mercato cinese, forme di collaborazione proficue e connessioni tra l’economia cinese e quella del paese con cui firma l’accordo.
Ma firmare un Memorandum d’intesa con una grande potenza come la Cina senza aver preventivamente approfondito il progetto in tutte le sue sfaccettature, (inclusa quella militare) e senza una connessione forte con gli altri paesi europei, nel giro di pochi decenni porterebbe a conseguenze profonde sia sul piano politico che su quello economico. Basti osservare quali sono gli ambiti di cooperazione tra Italia e Cina per immaginare che non si tratta solo di un semplice accordo di cooperazione commerciale o relativo alla gestione delle infrastrutture.

Tra l’altro se consideriamo che nel complesso del progetto l’Italia vuol agire da sola e ha investito meno del 3% del capitale, quale forza contrattuale potrà mai avere con un colosso come la Cina? E potrà mai sperare di contare qualcosa a livello diplomatico?

Gli ambiti di cooperazione tra Italia e Cina

Gli ambiti di cooperazione previsti tra Italia e Cina riguardano settori delicati come infrastrutture, energia, telecomunicazioni, trasporti, politica estera, aviazione civile, ma anche settori come l’e-commerce, in cui la Cina vuole diventare leader mondiale sfidando il colosso Amazon.
Mi preme osservare, su quest’ultimo punto, che a beneficiare di quest’accordo saranno le grandi aziende cinesi (un esempio tra tutti: Alibaba, che da sola fattura quasi 40 miliardi di dollari e che ha le carte in regola per sfondare sul mercato europeo) con gravi contrazioni per tutti quei piccoli imprenditori italiani che operano su internet e che già ora soffrono la concorrenza di Amazon, figurarsi la concorrenza di colossi cinesi.

Il nuovo imperialismo cinese che passa dall’Africa

Nel dibattito interno una parte del governo (in particolare il M5S) sta rassicurando tutti che dalla firma del Memorandum ne avremo solo da guadagnare, per riequilibrare la bilancia commerciale (ossia la differenza tra import ed export) e rafforzare la presenza delle nostre aziende sul mercato cinese, oltre ad attrarre investimenti in Italia. Ma a ben vedere tutta la struttura del progetto (basandoci sulle informazioni già pubblicate e in attesa che i singoli accordi vengano formulati in futuro), l’interesse preminente della Cina è: ottenere materia prima e governare il mercato europeo. In questo macro-obiettivo è chiaro che il micro-obiettivo sarà quello di dare qualche contentino ai partner africani ed europei, ma i vari contentini potrebbero rivelarsi dei boomerang. Ora lo capiamo meglio.

La trappola del debito con la via della seta

Il problema è che senza il supporto dell’Europa l’Italia verrebbe inglobata dalle politiche espansionistiche della Cina e che possibili prestiti o investimenti aumenterebbero il debito pubblico, dato che non saremmo in grado di ripagarli, come è già successo allo Sri Lanka che alla fine ha dovuto cedere in concessione il suo porto di Hambantota per 99 anni oppure alla Grecia, che ha dovuto vendere lo strategico porto del Pireo. La stessa cosa accadrebbe all’Italia: quello che la Cina non potrà comprare, se lo farà dare dall’Italia attraverso la trappola degli investimenti.
Detto in altri termini, i paesi che ricevono gli investimenti di Pechino si indebitano di cifre che poi non riescono a ripagare e quindi cosa fanno? Vendono infrastrutture strategiche e, con il debito pubblico in mano cinese, finiranno per essere influenzati politicamente dal proprio investitore, esattamente come accade oggi con il debito pubblico in mano alla Bce alle banche d’affari europee. Cambia il detentore, non cambia la sostanza, ossia che la politica italiana è influenzata dagli investitori.

Accaparrarsi le materie prime per controllare il mercato

Il cobalto è come l’oro

cobalto puro
cobalto puro

La Cina sa benissimo che oggi è antieconomico espandersi con l’hard power (ossia imporre l’egemonia con la guerra), vista l’esperienza statunitense degli ultimi decenni e quindi sfrutta il suo soft power (ossia imporsi con la diplomazia e gli accordi economici), particolarmente in Africa dove, costruendo infrastrutture e investendo miliardi di dollari, s’ingrazia i vari governi in perenne lotta tra loro e può invadere tranquillamente i territori alla ricerca di materie prime, sfruttando una forza lavoro praticamente gratuita e H24. E’ così che sfruttando la nuova schiavitù africana è all’agognante ricerca di cobalto, il nuovo oro, ma a buon mercato.


Vedi il reportage delle Iene sull’estrazione del cobalto in Congo

La Cina lo sa che il futuro è la mobilità. Smartphone e auto elettriche si basano sul cobalto. Nonostante le auto elettriche, come ho scritto in quest’articolo, non sono ecologiche, rappresentano il futuro, perché tutti oggi vogliono investirci nell’illusione della falsa green economy.
Il 54% delle risorse globali di cobalto si trova in Congo ed ecco perché la Cina ha fatto grossi investimenti lì e, nel solo 2018, ha importato cobalto per un miliardo e 200 mila euro. Giusto per fare una proporzione, al secondo posto c’è l’India con 3,2 milioni di euro. L’obiettivo della Cina è quindi quello di essere leader mondiale nella produzione di componentistica basata sul cobalto: batterie per auto elettriche e per smartphone, principalmente.

Influenza militare

Anche se la Cina preferisce la via degli accordi, non disdegna la sua presenza militare, soprattutto nei paesi in cui non incontra resistenze politiche e in cui vuole garantire l’ordine nei suoi affari. Sarà per questo che dal 2000 ad oggi la sua presenza militare in Africa si è intensificata, segno che la non ingerenza negli affari interni non è proprio uno dei suoi obiettivi, come sbandiera ai quattro venti.

In Gibuti è stata realizzata la prima base militare cinese permanente, mentre In Nigeria la Cina si è schierata al fianco del governo contro Boko Haram. In molti paesi africani costruisce centri logistici di influenza militare, non proprio delle basi, ma poco ci manca. Per approfondire vedi quest’articolo. Non è irrealistico pensare che – nel medio periodo – possa fare altrettanto nei paesi europei, soprattutto quelli più deboli politicamente.

La debolezza dell’Europa

L’Europa sarà la destinazione naturale delle rotte terrestri della via della seta nonché il principale mercato di riferimento, dato che uno degli obiettivi principali della Cina è di facilitare lo smercio in Europa dell’enorme sovraproduzione di merci prodotte nel paese. L’Europa varrà almeno 1000 miliardi di euro.
Se la via della seta è un progetto inevitabile (e così sembra, visti i miliardi messi in campo e la ferma volontà di Pechino di portarla a compimento) allora serve un’Europa forte, che possa controbilanciare il peso geo politico della Cina e possa influenzare il progetto secondo i principi di trasparenza, sostenibilità e libera concorrenza.
Mario Baldassarri, presidente del centro studi EconomiaReale in quest’intervista ritiene che occorra urgentemente un nuovo G8 con Cina, USA, India, Giappone, Russia ed Europa, America Latina e Africa per discutere insieme il progetto e l’Europa dovrebbe arrivare con una posizione unitaria, altrimenti il rischio è che l’Occidente, segnatamente l’Europa, possa scomparire dinanzi ad un nuovo mondo a due: Asia e America, in cui gli USA sono la parte debole. Il rischio è concreto proprio per via del fatto che sia gli USA che la Cina (e la Russia, che sommessamente la supporta) hanno – in questa fase di confusione dove ognuno vuol dettare le regole e fare il proprio gioco – abbandonato la via della cooperazione per abbracciare il bilateralismo: fare accordi singoli con i Paesi che interessano per raggiungere il proprio obiettivo e ridefinire gli equilibri mondiali.

E’ esattamente ciò che la Cina sta facendo in questo momento con l’Italia: l’Italia rappresenta lo sbocco naturale del Mediterraneo e la porta d’Europa e l’accordo tra Italia e Cina porterà ad una maggiore frammentazione dell’Europa, oggi indebolita sul piano interno e incapace sul piano internazionale di dettare la linea politica.

La Grecia ha già venduto il porto del Pireo ai cinesi e molti paesi europei dell’Est Europa, insieme ai paesi economicamente più deboli, hanno già aderito, autonomamente, al progetto: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Bulgaria, Grecia, Ungheria e Portogallo. La Germania e l’Olanda non hanno aderito, ma di fatto rappresentano uno dei terminal principali della via della seta, con Duisburg e l’immenso porto di Rotterdam.

Del resto l’Europa ha paura di perdere lo storico legame con gli USA, ma ha bisogno dei soldi cinesi e quindi attualmente, in preda alla confusione, alla frammentazione e all’incapacità di uscire con una linea unitaria, ha come unica carta da giocare il (debole) tentativo di adattare il progetto della Belt and Road agli standard qualitativi, ambientali e sociali europei nonché ai principi di trasparenza e libera concorrenza, principi ai quali la Cina si è sempre mostrata riluttante.

Quindi il rischio concreto è che l’Europa venga tagliata fuori dai rapporti diplomatici internazionali e che, di fatto, i principi su cui si fonda vengano travolti dall’avanzata cinese.

La Cina vuole entrare nel mercato del controllo dei dati anche grazie alla tecnologia 5G

via della seta 5g

Molti hanno paura che la Cina, attraverso il 5G (ossia le reti mobili di quinta generazione), possa controllare il flusso dei dati a proprio vantaggio.

Ma cos’è il 5G?

È un’architettura completamente nuova e rappresenta lo standard del futuro nell’evoluzione di Internet. Il 5G assicura una velocità di download e upload molto elevata e permette di interagire con molti dispositivi, in casa, in mobilità, nel sistema urbano e in quello produttivo: auto, smart city, droni, impianti produttivi saranno connessi alla rete per creare una connessione stabile e costante e un continuo flusso di dati.

Si calcola che entro il 2022 ci saranno 22 miliardi di nuovi oggetti collegati al web a cui si aggiungono 621 milioni di nuovi utenti Internet e la crescita del traffico dati sarà di quasi il 50% all’anno, anche grazie all’apertura al web nei paesi emergenti. Questo immenso scambio di dati (che riguarderà non solo le nostre comunicazioni, ma anche le città, le Pubbliche Amministrazioni, le tecniche aziendali, i progetti, il know-how, le metriche, le informazioni sui macchinari, ecc.) fa gola a tutti: a Trump come a Xi Jinping.

Al momento i leader del mercato sono Huawei, Nokia ed Ericsson, ma l’azienda cinese vale da sola il 30% del mercato. In Italia pare che già da tempo, anche prima della decisione di firmare il Memorandum, la Telecom si sia schierata con Huawei e, di conseguenza, a favore del progetto della Belt and Road (V. quest’articolo), segno che la politica attuale funge solo da passa carte, mentre le decisioni vere vengono prese nei CdA e dipendono da quanto s’investe. Difatti Huawei ha investito in Italia 162 milioni di euro solo nel 2016 e non è un caso che Telecom stia convergendo verso il colosso cinese.

Questo strapotere di Huawei (che fattura 92,5 miliardi di dollari e ha 180 mila dipendenti) spaventa Trump, il quale crede che il 5G in mano a Pechino servirà a spiare i paesi ed imporre la sua egemonia. Sarà per questo che ha deciso per l’estradizione della figlia del fondatore, Meng Wanzhou, per presunte accuse di violazione delle sanzioni all’Iran.

Ad essere terrorizzati dall’egemonia di Huawei (e quindi della Cina) nella gestione del flusso dei dati mondiali non sono solo gli USA, ma anche l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Inghilterra e diversi paesi europei, con le proprie rispettive aziende, che vorrebbero, a parole, democratizzare la gestione dei dati o quantomeno renderla più trasparente, ma nei fatti accaparrarsi quote di mercato. In questo quadro l’UE non ha ancora una posizione unitaria, a parte l’ovvia e debole considerazione di rendere trasparenti le metodiche di gestione dei dati.

E’ inutile dire che chi avrà il controllo del flusso dei dati avrà il controllo su tutto: sulle nostre vite, sulle aziende, sulle città, sugli accordi commerciali e politici, insomma, su tutto. Del resto è storia recente nel nostro paese che l’accesso a dati personali può sconvolgere delle vite e influenzare le decisioni personali, politiche e sociali. La stessa logica, se applicata a tutto ciò che è connesso alla rete, può portare al dominio di fatto che, unito alla predominanza commerciale e ad un mesto controllo militare, può sconvolgere ogni assetto globale.

Le infrastrutture costruite da aziende cinesi nella via della seta

Prima di toccare il punto vorrei sommessamente far rilevare che mentre il M5S in Italia fa tanto clamore per la TAV, parlando di disastro ambientale, allo stesso tempo firma un Memorandum per un progetto che sconvolge l’ambiente a livello quasi planetario, se si pensa che le infrastrutture costruite o in costruzione per la via della seta porteranno alla sparizione di delicati equilibri florofaunistici, come nell’istmo di Kra, in Thailandia, dove è prevista una ferrovia per ovviare al problema del passaggio delle navi lungo lo stretto di Malacca (anche perché il nuovo presidente della Malesia non sopporta l’eccessiva ingerenza cinese nel suo territorio. E a buon motivo).
Per non parlare dei numerosi gasdotti e oleodotti che verranno costruiti in India, Russia e Medioriente e che serviranno all’approvvigionamento di gas naturale e petrolio necessari per il sostentamento produttivo.

Detto ciò vorrei richiamare il Documento congiunto degli ambasciatori UE a Pechino nel quale sono espressi, tra gli altri, i timori degli ambasciatori circa il fatto che le infrastrutture saranno costruite principalmente da aziende cinesi e che i territori coinvolti non vedranno dunque un soldo da questo imponente progetto.

Il M5S e le (poche) aziende italiane coinvolte nel progetto si sono fatte abbagliare gli occhi dalle possibili commesse prospettate nel Memorandum e nei documenti allegati: qualche piccola fornitura, qualche piccolo appalto di pochi milioni di euro sono nulla rispetto ai benefici che ne trarranno le aziende cinesi nel complesso del progetto e nella gestione futura.

Il rapporto tra Cina e Made in Italy

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E’ da ingenui pensare che alla Cina interessi il Made in Italy e che da questi accordi ne avremo giovamento. Alla Cina interessa soprattutto importare materie prime e le nostre esportazioni saranno briciole rispetto al vero interesse ad aumentare le loro esportazioni e ad affermare la loro influenza commerciale e geo politica.

L’unica cosa che interessa alla Cina del nostro Made in Italy è di apprendere le tecniche di produzione per poi ritornare sul mercato interno con i propri prodotti realizzati in Cina.

Il 5G è uno strumento che faciliterà questa missione. Ma non solo.

Vi racconto un aneddoto. Anni fa un tizio propose a tre miei amici, tutti artigiani, di insegnare ad un gruppo di cinesi le tecniche per realizzare le loro opere e in cambio i cinesi avrebbero offerto loro l’ingresso nel proprio mercato. I tre artigiani sono un fabbro del settore artistico, che produce lampade, arredi interni ed esterni e oggetti per la casa, uno scalpellino, che realizza sculture, suppellettili e oggetti d’arte e d’arredamento e, infine, un ceramista, specializzato nella produzione di illuminazioni artistiche.

Dopo lunghe discussioni i tre artigiani capirono il rischio a cui erano sottoposti: è vero che sarebbero entrati nel mercato cinese, ma è anche vero che nel giro di pochi anni, dopo aver appreso le tecniche di produzione, le aziende cinesi, grazie ai capitali e alla manodopera a basso costo, li avrebbero eliminati facilmente dal mercato cinese e sarebbero tornate su quello italiano con le loro opere, bruciando il mercato ai tre poveri artigiani.

Parafrasando e allargando questo aneddoto su un piano più ampio, è esattamente ciò che la Cina vuol fare con il Made in Italy: ti prometto di entrare nel mercato cinese ma tu in cambio mi insegni a produrre i tuoi manufatti e, nel giro di poco tempo, ti brucio il mercato.

Del resto non è esattamente ciò che fanno i cinesi da decenni con la moda? Le maggiori griffe della moda ci sono cascate e oggi si ritrovano sul mercato dell’abbigliamento prodotti a basso costo che loro stessi hanno insegnato a produrre ai cinesi.

Il modello cinese nell’economia reale

Lasciando da perdere per un attimo la macroeconomia e calandoci nell’economia reale, che tutti noi viviamo ogni giorno, mi chiedo: quanti cinesi reimmettono i propri redditi nell’economia locale? Detto in altri termini: quante volte vediamo un cinese fare la spesa, mangiare in un ristorante che non sia di gestione cinese, andare da un barbiere che non sia cinese o comprare il pane dal fornaio sotto casa?

La domanda non è retorica perché si fonda su un assunto decisivo per capire anche le dinamiche geo-politiche che stanno dietro questo immenso progetto: il popolo cinese è storicamente e culturalmente irregimentato in una disciplina ferrea, che lo porta a perseguire obiettivi stoici, posti al di là della vita dei singoli e che sono addirittura antecedenti al regime comunista e trovano le proprie radici nel millenario imperialismo cinese.

Questa disciplina, unita all’esigenza del governo cinese di aprirsi a nuovi mercati per ovviare al problema della sovraproduzione, insieme a mille altri motivi, porta il popolo cinese a costituire micro società inserite nelle società occidentali in cui vivono e che li portano, quindi, a soddisfare tutti i propri bisogni all’interno di esse (mangiare, vestirsi, ecc.) e versare tutti i propri guadagni nelle banche cinesi che, non a caso, hanno capitalizzazioni pari solo alle grandi banche americane.

Del resto le banche cinesi non solo detengono buona parte del debito pubblico americano, ma finanziano con facilità tutte le imprese capitalistiche cinesi che si annidano in giro per ben tre Continenti.

Dunque è facile comprendere che il capillare tessuto socioeconomico cinese, in Italia come del resto in altre parti del Mondo, non immette ricchezza nel territorio in cui è inserito, ma la esporta in Cina. In altre parole quando compriamo dai cinesi stiamo rafforzando la Cina (e i cinesi non comprano da noi).

In questo modo è anche chiaro quanto sopra detto, cioè che con l’apertura alla via della seta il nostro Made in Italy non verrà esportato in Cina, ma ne verranno esportate sicuramente le tecniche di produzione, quindi la famosa bilancia commerciale è tutta spostata da un lato. In altre parole: nel giro di un decennio dalla realizzazione del progetto, le nostre imprese manifatturiere crolleranno o finiranno per essere controllate e inglobate da quelle cinesi.

Il sovranismo in salsa italiana

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come si cambia per non morire cantava Fiorella Mannoia…

Il rischio concreto è che l’Italia diventi troppo dipendente dalla Cina sul piano economico e questo potrebbe avere ripercussioni sul piano politico. Non credo ci sia in cima agli interessi cinesi, in Italia o in generale in Europa, l’idea di esportare il proprio modello culturale, ma sarà un’evoluzione naturale una sempre maggiore influenza politico-culturale generata da una sempre maggiore ingerenza economica. In altre parole più dipenderemo economicamente dalla Cina e più la sua influenza si farà pregnante. Per non parlare del reale rischio di vedere il debito pubblico totalmente in mano cinese, il ché porterà l’Italia ad essere una colonia di fatto.

Detto ciò ho sempre trovato curioso che gli italiani che sostengono la salvaguardia delle tradizioni enogastronomiche italiane non guardano con indignazione al proliferare di attività ristorative orientali che pian piano stanno sostituendo quelle autoctone, con i loro menù all-you-can-eat e con i prezzi stracciati.

E’ anche curioso che molti italiani si scandalizzano per l’invasione (falsa) degli africani ma guardano con indifferenza alla silente (e vera) invasione dei cinesi, che, forti del loro potere economico e dell’accesso al credito senza limiti, acquistano attività storiche, antichi bar, alberghi, persino scuole ed ospedali. La popolazione cinese in Italia è cresciuta esponenzialmente soprattutto negli ultimi 15 anni, per arrivare, oggi, a circa 300.000 unità, scientificamente sparse su tutto il territorio nazionale. E’ sotto gli occhi di tutti la crescente apertura di attività commerciali, specie nel settore della ristorazione e del commercio, che pian piano stanno sostituendo le attività commerciali autoctone. La concorrenza? Ci sarebbe se il costo del lavoro in madre patria fosse uguale al costo del lavoro in Occidente e, segnatamente, in Italia. Ci sarebbe se le banche occidentali aprissero al credito con la stessa facilità con cui le banche cinesi aprono al credito i propri connazionali, con la sicurezza che i soldi guadagnati ritorneranno, nel breve periodo, in quelle stesse banche.

Il ruolo degli USA e il sistema capitalistico inalterato

A me, onestamente, non interessa il ruolo degli USA in questa faccenda. Perché il timore di Trump è di perdere l’egemonia mondiale oltre agli interessi economici nel vecchio continente. Non voglio guardare a questa faccenda con gli stessi occhi di un capitalista timoroso di perdere soldi e potere politico.

A me il progetto spaventa perché l’Europa finirà dal tacco degli USA al tacco dell’Asia, in un complesso rapporto in cui molto probabilmente Cina e Russia (e India, che oggi gioca un ruolo ambiguo) sposteranno l’asse di influenza da Occidente a Oriente, mantenendo inalterato il sistema capitalistico a danno delle fasce più deboli della popolazione mondiale. Quindi in questa faccenda non c’è da schierarsi con gli USA o con la Cina, ma essere consapevoli che si sta giocando una partita epocale i cui effetti si sentiranno tra qualche decennio e che in questa partita noi (gente comune, lavoratori, professionisti, imprenditori, ecc.) siamo l’erbetta calpestata dai tacchetti, non siamo né i giocatori né gli spettatori.

Una chicca per gli ambientalisti

Oltre a quanto già detto (gasdotti, oleodotti, strade e ferrovie che sconvolgeranno in molti paesi un micro-clima delicato) con il graduale scioglimento dei ghiacci le navi cinesi preferiranno raggiungere i porti del Nord Europa attraverso l’Oceano Artico. E’ la cosiddetta via della seta polare, che è in cantiere. Le rotte polari consentiranno infatti un risparmio di tempo stimato intorno al 25-30% rispetto alle attuali rotte. La convenienza delle rotte polari è maggiore per le regioni che si trovano al nord del Vietnam: i container che partono dalla Cina (Hong Kong inclusa) diretti in Europa centrale troveranno più conveniente viaggiare attraverso l’Oceano Artico.
Quindi non crediamo che la Cina vorrà mai adoperarsi per ridurre le emissioni, anzi, dai cambiamenti climatici vorrà solo trarne profitto.

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