Che differenza c’è tra destra e sinistra oggi?

La differenza tra destra e sinistra in Italia? Nessuna sul piano del reale. Alcune, ma solo sul piano dell’immagine.

Già dagli anni Settanta, con il progressivo imporsi nello Stato italiano (Stato da intendersi non in senso istituzionale ma come complesso di classi, ceti, Istituzioni, organizzazioni, mercato, ecc.) del capitalismo di stampo americano e della società dei consumi, anche grazie alla scelta politica del partito egemone, ossia la DC, di schierarsi con il Patto Atlantico, il PC ha dovuto giocoforza adattare la sua politica ai nuovi scenari. Così ha cercato di mantenere un precario equilibrio tra la fedeltà ad un partito che aveva adottato il modello del socialismo in una sola nazione, sciolto la III internazionale comunista, fatto fuori gli oppositori e instaurato un regime dispotico.

Chiaramente in questo quadro il PC italiano, consapevole del suo ruolo politico in Occidente, non avrebbe mai potuto appoggiare apertamente il regime sovietico e, a causa del proliferarsi al suo interno di correnti moderate e miglioriste (ossia quella che vedeva un adattamento dei principi socialisti e comunisti al capitalismo) cercò di adattarsi ai nuovi scenari, con l’obiettivo – dati i consensi ottenuti – di arrivare al governo.

Cosa che non accadde mai, nonostante il compromesso storico, a causa dell’uccisione di Aldo Moro, che aveva ormai messo a punto il compromesso per arrivare al governo con i comunisti.

Dagli anni Ottanta, soprattutto dopo la morte di Berlinguer, il PC non riuscendo mai a governare, nonostante lo storico (seppur momentaneo) superamento elettorale sulla DC, iniziò a frammentarsi fino alla fatidica svolta della bolognina nel 1990, quando l’allora segretario Achille Occhetto decise di concretizzare quella cosa di cui si parlava da tempo e aderire ai principi del capitalismo e del liberismo in chiave riformista. Fu quindi fondato il PDS (Partito dei democratici di sinistra) che, con D’Alema, divenne DS per poi arrivare, nel 2006, al PD, racchiudendo in sé anche pezzi di ex democristiani (Margherita, ecc.).

I liberisti sono di destra e sinistra!

romano prodi privatizzazioni

Tra l’avvento di Berlusconi (1994) e il suo decennio egemonico (2000-2010 circa, a parte un paio d’anni di governo Prodi dal 2006 al 2008), i DS hanno portato avanti una linea di smantellamento dello Stato sociale a tutto vantaggio del liberismo (ne ho parlato più diffusamente qui), attraverso le privatizzazioni, le liberalizzazioni (volute da D’Alema, Prodi e Bersani) e lo smantellamento delle tutele sul lavoro.

Prodi, D’Alema, Bersani che oggi vengono considerati di sinistra e quindi molti sostenitori del PD storcono il naso ad un loro possibile ingresso sono quelli che hanno privatizzato il paese, liberalizzato i servizi essenziali e fatto guerra all’ex Jugoslavia per fare un favore agli amici imperialisti. Cos’hanno di sinistra se rappresentano gli interessi dell’alta borghesia e del capitalismo e sono i naturali predecessori di Renzi?

Renzi e la destra e sinistra che si fondono

Renzi ha svolto la sua purificazione (o rottamazione, come lui la chiama) del PD solo per questioni di potere, dato che la sua politica è improntata all’ultraliberismo e, quindi, a fare favori ai rappresentanti dell’establishment europeo. Il jobs act è la prosecuzione di un programma, iniziato con Treu negli anni Novanta, per precarizzare sempre più il mondo del lavoro e consentire al capitale di accedere alla forza lavoro a costi più contenuti, di garantire la concorrenza al ribasso tra i lavoratori e di avere un ricambio della forza lavoro sempre maggiore. Il jobs act, unito ad una sempre maggiore debolezza del sindacato (che ha molte colpe, soprattutto nell’aver svenduto la classe lavoratrice per mantenere un brandello di potere) ha portato condizioni di vita peggiore alla classe lavoratrice.

La buona scuola è stato un progetto volto a ridurre sempre più i finanziamenti all’istruzione pubblica a vantaggio di quella privata. Non c’è molta differenza con le politiche del governo Berlusconi che, con le riforme Moratti e Gelmini, ha inteso destrutturare l’istruzione pubblica e rafforzare quella privata, sia nella scuola che nell’Università. La privatizzazione dell’istruzione di ogni ordine e grado, tipica di un sistema liberale e liberista, è un processo che si sta realizzando tutt’oggi e che ha coinvolto tutti i governi, da destra a sinistra.

Il ruolo del Parlamento

parlamento

Il parlamento ha la funzione di discutere le leggi e di dettare la linea politica che il Governo ha l’obbligo di realizzare. Più è ampio il Parlamento, più è rappresentativo dell’elettorato e più, in teoria, questa funzione può essere esplicata e i provvedimenti normativi sono adottati nell’interesse della Nazione. Ma se il Parlamento viene esautorato della sua funzione, il ruolo di scrivere le leggi e di adottarle nell’interesse della Nazione chi ce l’ha? Dal Governo Berlusconi ad oggi stiamo assistendo ad una costante e continua azione di esautoramento del Parlamento, il quale oggi è svuotato della sua intima funzione e fa solo da passacarte. Due sono gli strumenti più lampanti:

1. Lo strumento della fiducia. In questo modo il Governo chiede al Parlamento di votare in blocco un provvedimento, senza discussione, senza emendamenti. E’ chiaro che con un Parlamento a vocazione maggioritaria e deframmentato è più facile far passare provvedimenti senza discussioni, senza emendamenti (che, in teoria, servono a migliorare il testo), senza, cioè, far decidere ad una platea ampia e rappresentativa dell’elettorato.

2. Lo strumento della decretazione d’urgenza. I Decreti Legge sono uno strumento che consentono al Governo di adottare provvedimenti urgenti, ma in questi ultimi decenni sono stati massicciamente utilizzati per tutto: finanza, istruzione, lavoro, infrastrutture, ecc., perché consentono l’immediata efficacia ed una successiva ratifica da parte del Parlamento, il quale, di fatto, non fa altro che prendere atto di quanto deciso dal Governo.

Queste tecniche parlamentari unite al tentativo di riforma della legge elettorale e della riduzione del numero dei parlamentari serve a dare maggiore potere al Governo ed eliminare le minoranze scomode.

Destra e sinistra d’accordo per ridurre la rappresentatività popolare

Dunque i tentativi di ridurre il numero dei parlamentari e le leggi elettorali di stampo maggioritario sono esattamente funzionali a quest’obiettivo: rendere inutile il Parlamento, ridurre il numero dei parlamentari, sbarrare l’accesso alle minoranze fastidiose e rendere la maggioranza conforme alla volontà del Governo e, quindi, ai veri sostenitori di destra e sinistra liberisti: le lobby economiche.

La seconda Repubblica, iniziata dopo il crollo della DC e l’ascesa dei partiti populisti (Berlusconi è il padre di tutti i partiti populisti, M5S incluso) è caratterizzata proprio da questa funzione: aumentare il potere del Governo e ridurre il potere del Parlamento, svuotando di fatto il dettato costituzionale che vuole la centralità del Parlamento. Ecco perché Renzi ha voluto la riforma costituzionale, per sacralizzare nel testo una situazione di fatto. Ecco perché oggi il M5S vuole ridurre il numero dei parlamentari: con la scusa che così si risparmia (ma ignorando le spese pazze dei suoi parlamentari), vuole portare a compimento un percorso iniziato con Berlusconi e portato avanti da Renzi.

Il maggioritario unisce destra e sinistra. Altro che proporzionale!

Non appena terminate le elezioni europee, nel caso in cui il Governo dovesse reggere alle elezioni e dopo che il M5S avrà realizzato pienamente qual è la sua forza elettorale, si tornerà a parlare di legge elettorale e scoprirete il vero volto del M5S, che si è sempre detto favorevole al proporzionale, ma cambierà idea, coerentemente con la scelta di ridurre il numero dei parlamentari e di accentrare i processi decisionali nelle mani di pochi (e quei pochi, si sa, sono controllati da un soggetto economico, privato, inserito a pieno titolo nel sistema liberista e capitalista).

Reddito di cittadinanza e salario minimo, due cose che non cambiano la sostanza

Il reddito di cittadinanza è un contentino elettorale che non influisce sul mercato del lavoro e che grava su di esso (viene preso dai redditi dei lavoratori e dal debito pubblico), inoltre piace molto ai fautori della società dei consumi.

L’attuale “battaglia” sul salario minimo è anch’essa un contentino elettorale che però porterà i datori di lavoro ad aumentare il numero di ore di lavoro, diminuire il numero di lavoratori oppure optare per forme di lavoro più flessibili (contratti a tempo determinato, false P.IVA, ecc.).

Già da queste brevi informazioni si può capire che oggi tra Destra e Sinistra (di centro, chiaramente), Lega, M5S (e altri) non c’è alcuna differenza, se non nei toni utilizzati o in sporadici e singoli temi trattati, che però non influenzano minimamente le linee politiche dei rispettivi partiti volte a mantenere lo status quo e impedire ai ceti più poveri della popolazione di progredire.

Sabotare i lavoratori per mantenere lo status quo

La crisi economica del 2007 (che si ripeterà a breve) ha mostrato tutte le debolezze del sistema capitalista attuale, oggi accentrato nelle mani di pochi e che si mantiene vivo grazie alla speculazione finanziaria, che, estremizzata al massimo profitto, ha portato alla crisi economica. Gli scenari futuri, anche considerando il ruolo che la Cina sta giocando nel complesso scacchiere geo-politico, ci riserveranno nuove crisi economiche in quanto l’attuale assetto capitalista non è minimamente scalfito.

Il ruolo dei partiti politici in Italia è stato lineare e trasversale tra essi, ossia quello di sostenere l’alta borghesia a tutto svantaggio delle classi lavoratrici, non solo di quella operaia, ma anche di tutti quei piccoli imprenditori, quelle micro imprese, quei professionisti che oggi soffrono per l’eccesso di offerta, la concorrenza spietata dei grandi gruppi di capitali e per l’erosione del potere d’acquisto, per cui il mercato viene sbarrato e ci si deve accontentare delle briciole.

Iniquità fiscale

Sappiamo tutti quanti che la pressione fiscale in Italia rende difficile ad una micro impresa di crescere. Chiunque, oggi, si immette nel mercato con una propria idea, soprattutto sul web, si trova davanti gli sbarramenti di tasse e imposte, mancanza di infrastrutture (specie al Sud), concorrenza sleale dei big della rete, ecc.

Nonostante la Lega abbia fatto suo il cavallo di battaglia della flat tax, ingraziandosi numerosi piccoli imprenditori e professionisti, questo provvedimento va a tutto vantaggio dell’alta borghesia, ossia di quegli imprenditori e professionisti che guadagnano molto e investono poco, preferendo invece speculare i propri profitti.

Contrariamente a quanto sostiene la Lega, i risparmi derivanti dalla flat tax per le grandi imprese (e i grandi professionisti) non saranno mai reinvestiti per la crescita o per l’occupazione, anzi, saranno investiti in attività speculative.

Quest’ottimo servizio di Milena Gabanelli dimostra, numeri alla mano, quanto la flat tax sia iniqua, soprattutto per i piccoli. Personalmente lo so benissimo, essendo una P.IVA, che la flat tax mi avrebbe penalizzato e infatti non vi ho aderito, nonostante faccia redditi da fame.

L’iniquità fiscale tra piccoli e grandi

Se salto una rata dei contribuiti INPS o un pagamento IVA, lo Stato attende un certo numero di anni (max 5, per evitare la prescrizione) affinché aumentino gli interessi e, con le sanzioni, la mia rata o il mio pagamento raddoppia o triplica. Così vengo strozzato e indotto al fallimento. E poi, per ripagare i debiti fiscali, dovrò accedere al credito, ipotecare la casa e, quando sarò entrato nel vortice del debito, perderò tutto. E’ accaduto così tante volte che è inutile stare qui ad approfondire.

Questa cosa, però, non accade con i big.

Amazon

Amazon realizza utili per 11,2 miliardi di dollari (e un fatturato di 233 miliardi di dollari), ma negli USA non paga un centesimo di tasse.

Dopo una lunga indagine della GdF, dal 2011 al 2015, si è scoperto che Amazon non avrebbe versato un centesimo di tasse nemmeno in Italia, avendo preferito spostare gli utili in Lussemburgo, dove vige una tassazione più favorevole, nonostante avesse in Italia “una stabile organizzazione” che, per il fisco italiano, è sufficiente affinché l’azienda paghi le tasse nel bel paese.

Non sappiamo quanto guadagna Amazon in Italia, perché i suoi fatturati in molti paesi europei sono segreti, ma sappiamo che la sua strategia è quella di aggredire il mercato europeo, operando in perdita, per eliminare ogni forma di concorrenza sia sul web che dei negozi tradizionali, forte dei continui finanziamenti da parte dei suoi azionisti, e sappiamo che nel periodo 2016-2018 il fatturato è aumentato del 71,26% (v. qui), eppure in Italia, dopo il controllo da parte della Finanza, pagherà all’Agenzia delle Entrate solo 100 milioni di euro per gli anni 2011-2015 (ossia 2,5 milioni ad anno, a fronte di un fatturato globale che arriva a 233 miliardi. Fate le giuste proporzioni).

Google

Anche Google ha fatto un accordo accomodante con il fisco italiano. A fronte di un fatturato globale di 67,6 miliardi di dollari nel 2015 (saliti a 82 miliardi nel 2016) pagherà in Italia appena 306 milioni di euro, dopo anni di contenziosi. Anche Google, forte del fatto di avere la sede legale europea in Irlanda (dove la fiscalità è esigua) e forte di essere una multinazionale del web, non ha mai pagato un centesimo di tasse in Italia, dove però offre i suoi servizi di pubblicità e dove, quindi, ha un mercato stabile. Eppure è arrivata ad un accordo che le ha consentito forti risparmi fiscali rispetto alla totalità delle aziende che operano e hanno la sede fisica in Italia.

Apple

Apple è stato il primo big a giungere ad un accordo col Fisco italiano. Nel 2015 ha pagato 318 milioni di euro per sanare una evasione fiscale di 5 anni che sfiora il miliardo di euro.
Apple è quella che ha pagato di più, ma per un semplice motivo: ha numerosissime attività commerciali fisiche nel territorio italiano, a differenza di Amazon che ha solo uno stabilimento a Castel San Giovanni e Google che ha una sola sede in Italia (a Milano).

I colossi pagano piccolissime somme (che arrivano, solo nel caso di Apple, a circa il 30%) per sanare le loro posizioni con il fisco mentre i professionisti, le PMI, le micro imprese e i lavoratori arrivano a pagare oltre il 70% tra fiscalità diretta e indiretta, senza contare i contenziosi e l’enorme burocrazia che blocca gli investimenti.

Favorire i grandi, penalizzare i piccoli

Ogni governo che si è succeduto in questi anni ha adottato la medesima politica di favore nei confronti dei big e non ha mai messo mano né alla fiscalità né al mercato del lavoro per correggere le numerose storture che coinvolgono sia gli imprenditori che i lavoratori.

In conclusione, per sintetizzare quanto detto finora, ritengo che la discussione tra destra e sinistra, oggi, in Italia, sia solo un mero esercizio stilistico, sia formalismo linguistico che non trova alcuna corrispondenza con la realtà.

Tutti, da destra a sinistra, sono rappresentanti di poteri forti (attenzione a non fraintendere e considerare quest’espressione di mero complottismo. Tutt’altro), solo di diversa natura: se il PD è naturalmente orientato a preservare i rapporti con l’establishment europeo, mentre il M5S cerca altri “padroni”, la Lega è orientata a rappresentare l’alta borghesia interna. Ma si tratta sempre di poteri, più o meno forti, che però sono accomunati da un unico intento: preservare il capitale, gli interessi economici, i rapporti di forza nel mercato.

Mercato e profitto

Nel mercato, si sa, si fa tutto secondo la logica del profitto: ci si scambia favori, ci si fonde, si fa concorrenza, si creano e disfano alleanze, sempre in nome del denaro. E in questi giochi la politica italiana fa gli interessi del mercato, non della Nazione. In altre parole, se Confindustria si schiererà con i cinesi, anche la Lega sarà a favore della Via della Seta (qui un approfondimento sul tema), così come il PD cambierà padrone se l’Europa e la BCE dovessero crollare nei nuovi rapporti di forza che s’ingenereranno tra Occidente e Oriente.

Detto in estrema sintesi: la politica di oggi è lo specchio del mercato, non del popolo. Il concetto di popolo è solo uno specchietto per le allodole per confondere le acque, convincere la gente che l’interclassismo ha sostituito il conflitto tra le classi e tenersi buoni gli strati più umili della popolazione, quelli che si sentono oggi rappresentati principalmente da Lega e M5S ma che da loro prendono solo calci nel sedere.

Destra e sinistra?

Se vogliamo invertire la rotta e ridare dignità a chi lavora, a chi è sfruttato (siano essi lavoratori, imprenditori, giovani professionisti, P.IVA, ecc.) bisogna lasciar perdere la diatriba tra destra e sinistra e ricostruire un socialismo di fatto che parta dagli ultimi, dai territori e che disegni un manifesto politico in grado di scalfire un sistema capitalistico ormai allo sbando, che si sta mostrando sempre più aggressivo e sempre più squilibrato (alla prossima crisi, imminente, mi darete ragione). Un soggetto che faccia comprendere la realtà nella sua razionalità, nella sua necessità, ovvero in modo scientifico e crei concetti e azioni che possano razionalizzare l’esistente. Pare difficile, ma non lo è. Lo sarà quando tutte quelle persone “di buona volontà”, anziché farsi la guerra sui particolari, metteranno insieme le proprie forze per un obiettivo unico. Stoico, se vogliamo, ma non impossibile.

8 commenti su “Che differenza c’è tra destra e sinistra oggi?”

  1. Premetto che mi considero liberale dai tempi di Malagodi e che da studente universitario, negli anni ’70, ho assiduamente frequentato ambienti di sinistra poiché mi affascinava moltissimo osservarne l’aspetto psicologico e sociologico. Ero, di conseguenza, sistematicamente dileggiato come “esemplare di una specie in via di estinzione”. Ho sempre considerato l’aberrazione più eclatante della cultura progressista, “luogo comune” che permane anche dopo la svolta della Bolognina, la contrapposizione CAPITALE/LAVORO. Attraverso questa contrapposizione le sinistre hanno galvanizzato le classi operaie, ottenendone il consenso, e facendo loro credere che in questa ottica si potesse ottenere una società economicamente più egualitaria. Purtroppo il CAPITALE e il LAVORO vivono in simbiosi e se si ostacola o danneggia l’uno (il capitale) ne subisce conseguenze nefaste anche l’altro (il lavoro). Paradossalmente è possibile ottenere una società economicamente meno “sbilanciata” ma agendo sulla eccessiva concentrazione del capitale in poche mani (disincentivandola anche fiscalmente) e favorendo la detenzione di capitale a coloro che non ne detengono o ne possiedono in misura limitata, ma questa via non è MAI stata presa in considerazione, poiché la cultura progressista detesta il mercato e non ne comprende i meccanismi di funzionamento. Non è un caso, pertanto, se proprio in Italia patria del maggiore partito dei lavoratori occidentale, egemonizzata per oltre mezzo secolo (dal ’68) dalla cultura progressista, e attualmente governata dai suoi eredi: i capitali si concentrano sempre più in poche mani (come nel resto del mondo), gli appannaggi della casta sono di gran lunga i più alti al mondo e (TRAGICOMICA E FANTOZZIANA BEFFA!!! per il paese patria del maggiore PC occidentale) i salari si configurano tra i più bassi dell’occidente industrializzato.

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    • ciao Gianfranco, grazie per il tuo contributo, molto interessante. Lo ritengo interessante perché hai messo l’accento sulla relazione tra capitalismo e funzione degli intellettuali in Italia, un paese che, a differenza dei paesi più prettamente liberisti (tipo UK e USA), ha subito le pressioni degli intellettuali tradizionali, della burocrazia, delle corporazioni e di stratificazioni sociali confliggenti. Non sono però d’accordo sulle “correzioni” al capitalismo, da parte della politica e, dunque, del diritto. Ciò perché gli stessi soggetti che siedono ai posti apicali della politica o della burocrazia sono quelli che, direttamente o indirettamente, rappresentano gli interessi dell’alta borghesia, cioè di quella che detiene i mezzi di produzione e i capitali finanziari. Quindi auspicare un “capitalismo dal volto umano” è utopistico oltreché ingenuo. E’ un po’ come chiedere al giudice una sentenza obiettiva quando questi è parente stretto della controparte. Il rapporto capitale/lavoro è un rapporto storico, che si determina su rapporti di forza. La politica è un corpo intermedio, sbilanciato a favore della parte più forte. Il compito del PC, storicamente, è stato quello di ribilanciare gli interessi e i rapporti, compito che però ha assolto bene e male, a seconda delle fasi storiche. Quando è giunto all’apice del suo consenso, è intervenuto un fattore determinante a suo sfavore, ossia la cultura dei consumi. Cosa che ha eroso gradualmente la lotta di classe e l’ha portata alla frammentazione di oggi. Non darei quindi la colpa al PC o ai movimenti “antisistema”, quanto alle striscianti strategie e tattiche dell’alta borghesia, che sono state vincenti e che oggi hanno prodotto le disuguaglianze sociali che sono sotto gli occhi di tutti. Anzi, senza una forza contrastante, queste diventeranno tumorali e produrranno povertà sempre più diffusa. L’importante, però, è capire che ciò dipende dalla natura del capitalismo e non certo dai suoi detrattori storici.

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      • Per Il Barbuto, leggo solamente oggi (13/08/2020) la tua risposta e osservo che, anche tu (scusami) risenti del luogo comune più sballato retaggio delle ideologie progressiste: la contrapposizione CAPITALE / LAVORO. Ti faccio osservare che essere anti capitalisti equivale ad affermare che il ciabattino deve riparare le scarpe senza il capitale, in altre parole facendo a meno della bottega, desco, cesoie, colla, martello, chiodi, seggiola, un po di liquidità e via discorrendo. Quindi un’autentica idiozia. il capitale e il lavoro vivono in simbiosi e se si ostacola o si danneggia l’uno ne risente anche l’altro. Non è possibile quindi perseguire una società economicamente più egualitaria in questa ottica. E’ possibile, invece costruire una società dove il capitale non si concentri troppo in poche mani (come inesorabilmente sta avvenendo) ma sia ripartito in modo più uniforme, incentivandone la detenzione a chi non ne possiede o ne possiede in misura limitata e disincentivandone, anche fiscalmente, l’eccessiva concentrazione in poche mani. ma far capire alla pubblica opinione (alle masse) un discorso tecnico come questo è una cosa praticamente impossibile. E’ più facile e conveniente, per chi vuole detenere il potere, cavalcarne l’ignoranza e l’emotività. Nelle mie osservazioni sociologiche e dilettantistiche dei tempi dell’università (non ho studiato sociologia, ma sono laureato in ingegneria chimica) ho maturato una precisa idea di quali siano pulsioni sociologiche (emotive) della differenza politica DESTRA SINISTRA, ho scritto anche un libro. Cerco di sintetizzartele: la discriminante tra destra e sinistra, è riconducibile a due ossessioni: – la prima (il tormento della destra) è la fobia verso li elementi percepiti come incompatibili con i modelli in uso nella società;- la seconda (l’assillo della sinistra) è l’intolleranza ei confronti dei modelli che appaiono imposti dalla società. Per afferrare il significato di queste righe, occorre spiccare un salto indietro negli anni, ricordandoci le principali inquietudini che ci hanno assalito durante il processo d’inserimento nella società, quando, da bambini, abbiamo intrapreso a frequentare la scuola, meglio: la classe. Proprio all’interno della classe abbiamo avuto a che fare con un compagno fonte di un certo disagio: era il “cattivo Giannino”, lo scolaro dall’atteggiamento irriguardoso e dal profitto non troppo brillante l’alunno seduto all’ultimo banco che quasi certamente ti rubava la merenda, l’abituale ritardatario munito di un solo quaderno deformato dalle innumerevoli orecchie e zeppo di orribili scarabocchi, il delinquentello dal quale era meglio tenersi alla larga, se non volevi ritrovarti con qualche livido o col grembiule strappato. Ancora: l’irrecuperabile discolo che aveva l’impudenza di mostrare il pistolino alla compagna del secondo banco e che, al rientro dal gabinetto, emanava un terribile odore di sigaretta. Certamente il “cattivo Giannino” ha costituito, per chi più e per chi meno, un cruccio all’interno della classe/società. Non dobbiamo però scordarci di un altro compagno, origine di angosce forse più devastanti, era il “bravo Pierino”, rampollo di buona famiglia: lo scolaro che occupava il primo banco, attento alla lezione, rispettoso verso gli insegnanti, premuroso nei confronti dei compagni indigenti, beneducato, vestito in modo consono con l’ambiente frequentato, mai spettinato, provvisto di libri foderati e disposti bene in ordine. Quello che riponeva con cura le matite nell’astuccio dopo averle usate, che eseguiva con diligenza i compiti assegnati, nella cui pagella erano riportati i voti più alti, che tutte le mattine sostava davanti al portone della scuola per almeno cinque minuti, nell’attesa della campanella d’ingresso. Un modello da imitare, la pietra di paragone quando percepivamo l’ansia di non essere all’altezza nella competizione sociale, e ogniqualvolta il rimbrotto del genitore, o l’osservazione dell’insegnante, facevano riferimento, più o meno sottinteso, a quella figura. Era proprio il “bravo Pierino” che ci turbava particolarmente, soprattutto quando lo avvertivamo imposto dalla società come modello comportamentale.
        E’ di fondamentale importanza rimarcare che il “bravo Pierino”, nei propositi della presente
        “trattazione”, non è da considerarsi bravo in senso assoluto, ma come modello di riferimento che la società, a volte sbagliando, valuta positivamente, ma soprattutto che pretende di imporci. Analogamente il “cattivo Giannino” non va inteso come sicuramente riprovevole, ma come elemento che la società, cadendo non di rado in errore, considera negativamente. Si può osservare come il disagio generato della figura del “bravo Pierino” prevalga nelle persone emotivamente a sinistra, mentre la fobia nei confronti del “cattivo Giannino” sia una peculiarità della destra.
        Il significato della nota dicotomia va quindi ricondotto alle due principali inquietudini che affliggono ciascuno di noi nei suoi rapporti con la collettività:- l’una correlata al rifiuto dei modelli che questa pretende di imporre; – l’altra causata dalla presenza di elementi che, non essendo conformi ai modelli in uso, sono percepiti a essa alieni.

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