Sono un uomo

Un misero e stonato, ma realistico, componimento sulla condizione dei migranti che faticano per quattro soldi, ma con profonda dignità, rischiando la vita tutti i giorni, come la cronaca, purtroppo, spesso ci racconta. Il componimento è liberamente ispirato a storie vere.

Vago nella notte illune, unto di sudori

e grumi di pomodori appiccicati sulla pelle

su questa bici sgonfia come i miei desideri

di lavoro, casa e dignità.

Torno dai miei fratelli, stipati in lerci giacigli

di quell’umida, vecchia, masseria

che i figli di questa terra hanno abbandonato

e di cui non sanno neanche la via.

Ma io la conosco bene

e torno su strade buie e accidentate

tra auto che corrono veloci

e occhi fissi su schermi luminosi.

Io di luminoso possiedo una torcia a pile

che fioca m’illumina il viso di una luce atroce.

“Ma levati di torno!”

Grida un tizio dall’auto che mi sorpassa

e quasi m’avvolge tra le sue lamiere.

Io pedalo, lungo la via, lento e stanco

e nel cuore lesta m’assale malinconia.

Ricordi da bambino, le mani di mia madre

che dolce m’accarezzava in viso

e vegliava sul mio futuro

sognando per me lavoro, casa e dignità.

Laureato e con un bagaglio ricolmo di sogni,

due soldi in tasca, per i primi bisogni,

m’accolse il caldo agosto di terra pugliese

e il freddo sguardo del mio duro padrone.

Ora pedalo e sogno soltanto

lo scomodo giaciglio lercio

e sonno e riposo tra mosche e zanzare,

tra mille puzze di mille fatiche.

D’un tratto m’accascio.

Copioso esce il sangue dalle mie vene

il mio corpo geme, si duole e tormenta

mentre la mente, sveglia, s’accorge di loro.

“non ci ha visti nessuno, scappiamo!”.

Le auto scorrono veloci e sbadate

quasi urtando le mie membra sfregiate.

Poi quel caldo abbraccio

d’una sconosciuta passante

rammenta ricordi di madre

di quando m’accarezzava e diceva

“stai tranquillo”

e poi la voce concitata

“correte, veloci, un uomo è a terra!”.

e la corsa all’ospedale,

steso su quella barella

nel fragore di sirena tonante

la parola riecheggia come un suono

non m’ha chiamato migrante

m’ha chiamato uomo.

Le auto elettriche sono davvero ecologiche?

auto elettriche

Negli ultimi tempi si parla molto di mobilità sostenibile e di automotive-green, ossia del binomio automobile e rispetto per l’ambiente, tanto che anche l’attuale governo nostrano ha spinto gli italiani – con incentivi ed ecotasse – a passare a modelli di auto ecologici, ossia elettrici, ibridi o a gas, premiando maggiormente quelli che emettono meno CO2, ossia le auto elettriche.

Da ex possessore di un’auto ibrida non posso che congratularmi con questa scelta e guardare con positività allo sviluppo delle auto a minor impatto ambientale, ma, osservando meglio la realtà e interrogandomi sulle fonti di produzione dell’energia, l’entusiasmo cala parecchio. Già, perché se da un lato le auto elettriche inquinano meno, dall’altro lato le fonti di produzione dell’energia elettrica necessaria per far muovere le auto continuano ad inquinare.

Quindi, di fatto, il problema dell’inquinamento resta, attualmente, inalterato. Questo i governi dovrebbero saperlo e dovrebbero attuare una seria politica energetica (che in Italia è assente da decenni), anziché illudere i cittadini che con l’elettrico si salva l’ambiente.

Da dove viene l’energia elettrica?

Se andiamo a vedere da quali fonti viene prodotta l’energia elettrica, scopriamo che la prima fonte di produzione è…il petrolio! Seguito dal carbone, dal gas naturale, dall’energia nucleare e solo una piccola parte viene prodotta dalle fonti rinnovabili.

Insomma, anche con l’auto elettrica il petrolio si consuma lo stesso!

Vediamo meglio da questo grafico

fonti di produzione dell'energia elettrica nel Mondo
Le fonti di produzione dell’energia elettrica nel Mondo. Fonte: tecnologiaduepuntozero.altervista.org

In particolare sono queste le percentuali di produzione:

  • petrolio (31,4%),
  • carbone (29,0%),
  • gas naturale (21,3%),
  • energia nucleare (4,8%),
  • biomasse (10,0%),
  • idroelettrico (2,4%)
  • solare ed eolico (1,1%)

In realtà andrebbe detto che biomasse ed idroelettrico non sono propriamente delle fonti rinnovabili, perché l’energia idroelettrica non si rigenera alla stessa velocità con cui si consuma, mentre le biomasse, come tutti sappiamo, producono combustione e non possono comunque definirsi tecnicamente rinnovabili.

La produzione di energia rinnovabile pura (solare, eolico, geotermico), seppur cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni, non consente realisticamente, nei prossimi decenni, di coprire una quota significativa del fabbisogno mondiale di energia, soprattutto se consideriamo che in questi anni il consumo di energia elettrica nei paesi emergenti (Cina, India, ecc.) è in continuo aumento e rappresenta – oggi – quasi il 60% dell’energia prodotta a livello mondiale.

Dunque, se pensiamo di acquistare un’auto elettrica, dobbiamo essere consapevoli che non stiamo contribuendo ad abbattere le emissioni in atmosfera, ma che stiamo semplicemente spostando il problema, da valle a monte.

Soluzioni?

Ci sono e l’ingegneria energetica ci ha dimostrato in questi anni che è possibile efficientare ed ottimizzare i mezzi di produzione di energia rinnovabile, ma bisogna essere realistici e sapere che molto difficilmente le aziende del settore abbandoneranno le attuali fonti di approvvigionamento per investire le proprie risorse sulle fonti rinnovabili, quindi il cammino verso un aumento di produzione delle rinnovabili è sì possibile, ma lungo, farraginoso e non privo di ostacoli. Perché gli ostacoli non vengono solo dai diretti interessati (gli operatori del settore), ma anche dalla politica nazionale, europea ed internazionale. I vari accordi susseguitisi in questi anni (dal protocollo di Kyoto all’accordo di Parigi) dimostrano che non c’è molto interesse nel perseguire una politica ambientale ed energetica comune né sono stati messe in campo, dai singoli Paesi, Italia compresa, strategie in tal senso.

Marchionne aveva ragione

Sergio Marchionne
Sergio Marchionne

Anche se politicamente avverso, non posso non dar ragione a Marchionne che, per anni, ha sempre ribadito che FCA non avrebbe mai implementato motori per auto elettriche, giungendo persino a dire che l’elettrico è una minaccia all’esistenza stessa del Pianeta.

Secondo Marchionne l’unica soluzione per attenuare le emissioni di CO2 era di investire sull’efficienza dei motori termici in termini di consumi ed emissioni.

Aveva ragione e aggiungo che allo stato attuale, forse, l’unica soluzione possibile è di implementare maggiormente la tecnologia ibrida, la quale consente, in coppia col motore termico, di recuperare l’energia chimica prodotta dall’auto e di trasformarla in energia cinetica. Senza la necessità, da parte nostra, di ricaricare ipocritamente l’auto alla presa della corrente, pensando di salvare l’ambiente.

Il falso tira e molla sulla TAV

treno simpson tav

La discussione di questi giorni in merito alla TAV rappresenta, nella dialettica politica tra i due governanti / contendenti, un falso problema o, per dirla meglio, un’illusione demagogica.

In prim’ordine perché tutto è stato deciso, il progetto andrà avanti e questo lo sanno benissimo sia i leghisti che i pentastellati, in second’ordine perché ognuno di loro vuole mantenere illibata la sua immagine davanti all’elettorato e quindi il braccio di ferro tra Salvini e Di Maio va visto semplicemente in questa chiave di lettura: Il M5S salvi capre e cavoli, in vista delle elezioni europee. Perché questi continui battibecchi e il tentativo, da parte del Presidente Conte, di giungere in soccorso alla parte più debole del governo dimostrano un re-bilanciamento del peso politico, oggi tutto spostato a favore della Lega, nonché l’interesse a mostrarsi determinati a bloccare l’opera in un gioco di specchi riflessi, ma al cui interno si nascondono le vere intenzioni.

Tra l’altro la presa di posizione di Conte non è casuale né dettata da emotività, ma è un modo per abbagliare la discussione pubblica sul tema, accreditarsi presso l’elettorato grillino e mostrarsi all’opinione pubblica come puro e obiettivo sostenitore delle ragioni del M5S.

Al netto del fumo negli occhi gettato sull’opinione pubblica, quello che resta nella sostanza è la volontà ferma di realizzare l’opera, sia da parte di Salvini che da parte – ovviamente – dell’establishment europeo. Su questo non ci sono sovranismi che tengono.

Salvini, del resto, è un fermo sostenitore dell’opera poiché lui rappresenta gli interessi di quella borghesia industriale, tutta italiana, che vuole che la TAV sia realizzata per evidenti ragioni di profitto. Al di là dei costi di investimento, che ricadono sui conti pubblici europei, non vi sono dubbi che tutti i grossi imprenditori, italiani e non, sono concordi nel volere la TAV. Quindi a beneficiare dell’opera saranno gli agglomerati industriali europei, le grandi aziende, gli importatori e tutto quel tessuto economico che, per semplicità espositiva, chiameremo capitalisti.

Quest’aspetto va sottolineato per tutti coloro che ritengono Salvini un sovversivo dell’ordine europeo e un sovranista puro. Il sovranismo di Salvini non è altro che conservazione di un sistema economico-politico volto a tutelare gli interessi dei ceti più ricchi, una forma di reazione non tanto ai diktat europei, quanto alle classi più deboli della popolazione. Altrimenti non si spiegherebbe perché viene ben visto da Confindustria e da tutti i rappresentanti del capitalismo, non solo nostrano.

La sua lotta in Europa non è lotta per la sovranità del popolo italiano, ma una lotta tutta interna agli interessi capitalistici dei suoi più fermi alleati. In questo quadro va vista la sua battaglia a favore della TAV.

In altre parole Salvini non fa altro che conservare gli interessi di quei soggetti che vogliono abbattere i costi, velocizzare gli spostamenti di merci e aprirsi a nuovi mercati. Tutto bello, sì. Peccato che tutto ciò – come si è visto negli ultimi secoli – non avvantaggia l’economia reale, non incide sul benessere collettivo né migliora le condizioni di vita dei cittadini. Anzi, più il capitalismo matura, si coalizza, si internazionalizza, diventa tecnologico, tende a monopolizzare e a ridurre il liberismo e più aumentano le disparità sociali, le crisi economiche e la povertà di masse di persone.

Eppure quest’opera la paghiamo noi. Il grosso dell’investimento è sorretto dai bilanci europei, ossia da quelle somme che tutti gli anni gli Stati membri versano all’UE e che, ovviamente, derivano da imposte e tasse che noi paghiamo. Se poi inseriamo questo concetto nell’ordine di idee da cui nasce la flat tax, capiamo perfettamente che chi paga l’opera (e tutte le opere che verranno, oltre a tutte le politiche economiche che si faranno) non è l’imprenditore, ma il lavoratore, visto che il lavoro è maggiormente tassato rispetto al profitto. E poi pagheremo tutti, indistintamente, senza progressività, con l’IVA e con tutte quelle tasse che gravano sui consumi. Insomma, il sovranismo salviniano è sovranismo degli interessi economici della borghesia che lo appoggia, non del popolo grullo che lo acclama.

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Il progetto TAV

Il costo totale dell’opera è di 8,6 miliardi di euro e l’Europa, come detto, ne mette la maggior parte, mentre investe per circa il 40% sul tratto franco-italiano, ossia quello per cui oggi si sta tanto discutendo.

Quindi l’opera la paghiamo noi ma andrà a vantaggio dei grandi gruppi industriali e di quel tessuto economico-commerciale europeo e internazionale che vuole assolutamente ridurre i costi, aprirsi a nuovi mercati e far viaggiare le merci con più efficienza.

Ma guardiamo il lato positivo delle cose.

Il treno è solo un mezzo. Spostare merci velocemente e a minori costi e minor impatto ambientale è un bene, ma tutto ciò dipende da chi lo utilizza e con quali finalità. Dipende da chi produce quelle merci e a chi sono destinate.

Le infrastrutture sono utili, ma il fine a cui sono destinate può cambiare e può avvantaggiare determinate classi sociali. Il vero problema non è il mezzo, ma chi lo detiene. Del resto un ponte con un Paese straniero può essere usato per facilitare la guerra oppure per facilitare i rapporti tra esseri umani. Il mezzo è uno strumento, è il fine che lo rende utile o dannoso.

Certo allo stato attuale la TAV servirà gli interessi del capitale, ma non è detto che una futura (e possibile) classe dirigente interna o europea possa destinare l’infrastruttura ad altri e più proficui utilizzi. E poi, come ogni grande opera, ci sono gli elementi negativi (l’impatto ambientale, gli alti costi di realizzazione, ecc.) ma anche quelli positivi, come la limitazione del trasporto su gomma. Del resto anche il trasporto su gomma incide negativamente sull’impronta ambientale e non si può certo nascondere che il carburante consumato da circa 1 milione di tir all’anno che passa dalla val di Susa ingrossi comunque i fatturati delle compagnie petrolifere, oltre a creare caos, inquinamento, sfruttamento dei poveri autisti da parte di una miriade di padroncini e centellinati danni alle fragili infrastrutture della rete stradale e autostradale.

Insomma, ogni grande opera nasconde i suoi pro e contro. Ma va comunque evidenziato nuovamente che l’interesse attuale e cogente di Salvini e dell’Europa è quello di favorire gli interessi economico-finanziari del capitale, in un tira e molla tutto interno, senza dare alcun utile alle classi più svantaggiate.

Luigi di maio

Se il M5S vuole davvero rendersi utile alla causa e fare qualcosa di buono per il popolo, di cui oggi si sente portatore degli interessi e delle aspettative, non si limiti ad uno sterile NO all’opera che serve solo a tenersi buono l’elettorato più radicale, ma promuova una campagna volta a finanziare, in fase di realizzazione dell’opera, i territori coinvolti con parte dei fondi messi a disposizione per la TAV e li destini a misure di compensazione vincolate a progetti per le classi meno abbienti: fondi destinati all’istruzione, alla cultura, all’inclusione sociale, ecc. E s’impegni a costringere gli utilizzatori dell’opera a destinare parte dei ricavi ai territori e ai progetti sopra menzionati. In questo modo almeno si attenueranno le conseguenze e una parte dei profitti sarà redistribuita equamente tra chi l’opera la subisce e non ne trae alcun vantaggio. Almeno per ora.

Via la plastica dai bar!

plastica bar

Siete mai entrati in un bar a prendere un caffè? Domanda retorica, certo. E quante volte, insieme al caffè vi hanno servito anche l’acqua in un bicchiere di plastica? Al Sud è un rito e guai se il barista non prende l’iniziativa e serve subito l’acqua, mentre nel resto d’Italia questa pratica non è costume diffuso ma dipende molto dalla sensibilità del barista. Ad ogni modo, nei miei continui spostamenti in giro per l’Italia, poche volte ho ricevuto un rifiuto nel chiedere un bicchiere d’acqua e pochissime volte questi prevedeva un pagamento extra.

Sapete quanti bar ci sono in Italia? Secondo la Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) ad oggi nel nostro Paese ci sono 149.154 bar, ossia quasi 150 mila bar!

E quanti caffè vengono serviti ogni giorno? Secondo alcune stime circa 70 milioni di tazzine di caffè, ma queste stime tengono conto del numero totale di caffè bevuto dagli italiani ogni giorno (circa 4), che comprende ma non si sostanzia nel consumo di caffè al bar. In altre parole gli italiani, in media, bevono circa 4 caffè al giorno di cui un paio a casa, uno sul luogo di lavoro e uno al bar.

Se però facciamo una stima al ribasso, calcolando in media 100 caffè al giorno serviti nei bar, arriviamo a circa 15 milioni di caffè serviti ogni giorno. Una cifra al ribasso, ma comunque impressionante!

E di questi 15 milioni, quanti sono i bicchieri d’acqua consumati? Se, anche in questo caso, facciamo una stima molto al ribasso e calcoliamo che solo la metà dei baristi serve il bicchiere d’acqua in plastica si tratta di 7,5 milioni di bicchieri di plastica che vengono serviti, utilizzati e gettati. Ogni giorno.

Già, la plastica. Perché sono rarissimi i bar che servono l’acqua nel vetro, dato che si perde tempo a lavare un bicchiere di vetro, mentre il bicchiere di plastica è molto più comodo: si serve, si beve, si butta via. E con i ritmi di lavoro sfrenati di molti bar italiani (soprattutto nelle ore di punta) è impensabile tenere impegnato un dipendente solo a lavare i bicchieri. Tra l’altro il vetro è scomodo, si scheggia e si rompe facilmente. E poi quanti clienti storcono il naso quando l’acqua gli viene servita in vetro poiché sospettano che non sia stato lavato bene?

Sapendo che una confezione di 100 bicchieri di plastica pesa 2 kg e facendo un rapido calcolo, ci rendiamo subito conto dell’enormità dello spreco di plastica che si perpetra in Italia ogni giorno: 150 mila kg di plastica vengono usati e gettati via, ogni giorno.

Riflettiamo un attimo: il barista ci serve l’acqua nel bicchiere di plastica, in un sorso la beviamo e pochi secondi dopo quest’ultimo diviene già immondizia.

Qualcuno ribatterà: ma la plastica viene riciclata! Su quest’argomento ci sarebbe molto da dibattere, dato che in Italia sono pochissimi i Comuni che fanno una corretta raccolta differenziata della plastica, perché ogni plastica ha una sua composizione chimica e solo un corretto riciclo ne consente la selezione e la successiva messa in produzione.

Ad ogni modo quanti bicchieri di plastica, nei bar, finiscono nei cestini dell’indifferenziata? E quand’anche finissero nei cestini della plastica, con quanti altri oggetti – di plastiche differenti – vanno a mischiarsi?

Da qui nasce una riflessione molto semplice: se si evitasse il consumo di plastica nei soli bar di tutta Italia ogni giorno risparmieremmo 150 tonnellate di immondizia in plastica, con notevoli risparmi sia in termini ambientali che economici.

Secondo il WWF ogni anno vengono riversati nel mar Mediterraneo almeno 150 mila tonnellate di plastica, ossia il corrispondente della plastica prodotta solo nei bar d’Italia in poco più di 2 anni.

Sarebbe davvero un onere così eccessivo se tutti i baristi d’Italia passassero al vetro solo nel servire l’acqua? Solo per un gesto così semplice? Anzi, credo che sarebbe una scelta etica, di facile esecuzione e che farebbe risparmiare all’Italia un così elevato consumo di plastica. L’ambiente lo possiamo salvare anche con piccoli gesti. E oggi, che gli allarmi sui cambiamenti climatici diventano sempre più tangibili, anche i piccoli gesti quotidiani possono fare la differenza.

La riorganizzazione del M5S non convince affatto

M5S balcone

In una recente intervista all’HuffPost, il capogruppo alla Camera del M5S Francesco d’Uva ritiene che uno dei problemi del M5S, che gli ha impedito di radicarsi nei territori, sta nel fatto che i Meet Up non sono mai stati riconosciuti dal Movimento e che invece andrebbero sostituiti con realtà riconosciute.

In altre parole stanno parlando di circoli, esattamente come fanno tutti gli altri partiti. Alla domanda se questa scelta poi non li renderà uguali agli altri, il d’Uva risponde che la loro diversità sta nel fatto che gli iscritti votano sulla piattaforma Rousseau. Questo, secondo loro, sarebbe più che sufficiente per renderli diversi dagli altri.

Ora non voglio soffermarmi molto sull’argomento dei circoli locali. Già in altri articoli ho parlato del tema e ho sempre sostenuto che qualsiasi soggetto politico, per potersi strutturare e progredire, deve necessariamente essere presente sui territori, attraverso strutture capillari, che si possono chiamare circoli, meet up, sezioni…non importa il nome, importa semmai un concetto molto più intimo ed essenziale: che queste realtà territoriali dettino la linea del partito (o del Movimento o come dir si voglia). Ma grande è la confusione sui cieli di Roma se i leader del M5S vogliono ristrutturare il movimento dando concretezza ai circoli ma lasciando che la linea politica si detti dall’alto, quando occorre e su una piattaforma privata, priva di garanzie e controlli.

Lasciando perdere quest’ultimo punto, l’aspetto preminente è che si dà ancora somma importanza allo strumento sottendendo che la linea politica sarà dettata come e quando serve al vertice, dunque secondo modalità proprie della democrazia rappresentativa di cui il M5S è sempre stato fermo detrattore, preferendo la democrazia diretta e partecipativa. Ma, amici miei, la democrazia diretta e partecipativa presuppone una dialettica libera, capillare e multiforme, che parta dal basso e che diventi sintesi grazie al contributo del vertice. Quando, invece, è il vertice a proporre i temi e gli iscritti si limitano a votare, questa è una forma di centralismo dittatoriale, mascherato da democrazia diretta, in cui l’opinione dell’iscritto è limitata ad un voto, non si manifesta in una discussione, in una tesi e nelle sue conseguenti antitesi e sintesi, non si sviluppa nell’analisi e nella conseguente decisione democratica. No, è solo un voto, un o un no, al massimo una scelta tra più opzioni.

Dunque, secondo questa visione del nuovo M5S, che si sta delineando in questi giorni, cambia la forma ma la sostanza resta immutata in quanto se si riconosceranno i circoli territoriali, questi non avranno la possibilità di esplicare il proprio contributo ma saranno – nella migliore delle ipotesi – centri di aggregazione, dispensatori di iniziative sul territorio, sedi fisiche dove ritrovarsi per parlare…tutte cose molto belle e utili, che però non cambiano la sostanza delle cose: la linea politica sarà sempre dettata dal vertice.

Questo perché?

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Perché il M5S nasce con un peccato originale, una deformazione mai curata che lo ha portato presto all’ascesa e ancor più presto alla sua (inevitabile) disfatta, una disfatta che potrebbe essere evitata se si operasse una discussione ampia e condivisa tra le anime del Movimento, ma che non ci sarà e quindi la disfatta sarà certa.

Il peccato originale è quello di essersi formato sui temi, di aver posto come dogma incrollabile il (falso) valore dell’onestà e di aver agito come movimento antisistema, come detrattore della casta e delle Istituzioni, sfruttando l’ondata di antipolitica che ha scosso l’Europa (e, direi, anche oltre) e raccogliendo presso di sé le istanze più disparate e antitetiche: da qui il consenso dei no-vax, dei complottisti, degli antieuropeisti e via dicendo. L’ascesa è stata rapida perché si è preferito costruire subito sulla sabbia piuttosto che lentamente su terre solide e, ovviamente, basta una piccola onda per buttare giù il castello di sabbia.

Senza un metodo dialettico, una visione d’insieme, un’analisi della storia, una capacità di disciplinare gli iscritti e di renderli coesi, senza un metodo di bottom-up e top-down, per cui il vertice istruisce la base e la base detta la linea politica al vertice, senza la formazione di una classe dirigente capace e consapevole del suo ruolo, i risultati del Movimento sono sotto gli occhi di tutti.

Inoltre, e concludo tornando nell’immanente, la scelta di governare a tutti i costi, anche a costo di essere subalterni ad un leader carismatico e capace sul piano politico, pur di occupare delle poltrone, ha fatto pagare un prezzo caro al Movimento. Come dimenticare quando, durante le consultazioni nel 2013, i grillini chiesero a Napolitano di governare da soli, senza numeri in Parlamento e con pochissima esperienza politica? Già allora scalpitavano per avere il potere.

Ma non è detto che il programma di un soggetto politico si debba realizzare necessariamente con il governo di una Nazione. Ci possono essere tante strade da seguire e anche dall’opposizione o al di fuori dei palazzi si possono ottenere risultati. Ma la necessità di governare, così sembra, non va di pari passo con la necessità di realizzare un obiettivo, bensì con la semplice e pura volontà di detenere il potere. Quand’è così la gente, anche quella più impreparata e incapace, se ne accorge, e agisce di conseguenza.

Ecco perché i gilet gialli sono destinati a fallire

gilet gialli francia

Il titolo un po’ provocatorio parte da una semplice considerazione che mi auguro di poter meglio sviluppare nel prosieguo dell’articolo, e cioè che quella dei gilet gialli, in Francia, è una forma di lotta spontanea, seppur in nuce auto organizzata, frammentata e priva di sintesi politica, ossia di quell’agire politico la cui base si ritrova in un’idea di fondo (o ideologia, seppur questo termine oggi sia stato triturato e svuotato del succo del suo significato), in un’obiettivo (seppur ideale), nella disciplina politica e in un’organizzazione (seppur rudimentale) in grado di analizzare la realtà, farsi portavoce di una classe e fare sintesi tra le diverse ed eterogenee idee di fondo che animano il malcontento popolare.

Malcontento che è stato inizialmente banalizzato dall’establishment e minimizzato dai media, successivamente additato come ferocia violenta e ingiustificata e, solo oggi, analizzato per quello che è: l’espressione istintiva di una ribellione dovuta alle condizioni di disagio e ingiustizia sociale che ha costretto gli individui ad autoorganizzarsi e a scendere in piazza per esprimere la propria avversione ad un sistema tardo capitalista e neo liberale che, riducendo i diritti e le libertà sociali, ha prodotto nel concreto quella disuguaglianza di cui si parla ormai da decenni.

Il motivo della lotta dei gilet gialli

Il motivo per cui molti francesi delle periferie (con ciò intendendo tutte le realtà sociali lontane dalla civiltà cittadina) hanno deciso di scendere in piazza ogni sabato, ormai da diversi mesi, è, come risaputo, la svolta ambientalista di Macron, il quale ha deciso un aumento consistente dei prezzi del carburante motivando la scelta col fatto che solo una minuta percentuale di parigini utilizza l’auto per gli spostamenti, preferendo i mezzi pubblici. Ma i parigini non rappresentano la totalità dei francesi e in questa scelta l’esecutivo non ha considerato quella moltitudine di gente che vive nei centri minori, nelle campagne e che non ha la possibilità di spostarsi se non con l’auto.

Ma c’è altro

In realtà ad essere messa sotto accusa non è solo la scelta di aumentare il prezzo del carburante, bensì tutta la politica economico-sociale di Macron il quale ha accordato privilegi economici ai ceti più abbienti facendo ricadere i costi sulla collettività. Quindi le varie forme di defiscalizzazione, l’abolizione della patrimoniale, insieme all’abolizione della tassazione progressiva sui redditi e a consistenti sgravi fiscali alle aziende, unita ad una situazione di precarietà del lavoro e di riduzione dei servizi alla collettività (sanità, scuola, ecc.) ha scatenato le prevedibili proteste dal basso. Ecco perché la scelta di non aumentare il prezzo della benzina (accordata da Macron con la speranza di svilire la protesta) non ha sortito gli effetti voluti e, anzi, ha ottenuto l’effetto contrario.

La politica liberista di Macron e le proteste dei gilet gialli

Il punto è che Macron non riesce a comprendere le ragioni della protesta perché lui oggi rappresenta la personificazione di quel liberismo globalista e tardo capitalista che attraverso la politica amplia le libertà individuali (illudendoci di essere progressisti) ma esautora le libertà e i diritti sociali, che è incapace di comprendere le esigenze dei ceti meno abbienti e soprattutto che appiattisce i ceti, le classi, i gruppi e tende a formare masse indistinte di gente, consumiste e, dunque, destinatarie di merci da consumare.

Ecco perché la gente, formata nel gentismo indistinto, senza più alcuna rappresentanza politica e con esigenze ben diverse e più articolate rispetto alla vecchia classe proletaria, si ribella ma la sua ribellione è istintiva, non coordinata, incapace di produrre frutti perché incapace di fare sintesi e trovare un’organizzazione e una prospettiva duratura e quindi destinata a fallire miseramente.

La cura è peggio del male

Sarebbe impossibile fare un paragone con la stagione socialista che ha coinvolto la classe proletaria sin dai primi del ‘900 come sarebbe storicamente fuorviante paragonare queste forme di protesta a quelle che portarono al rovesciamento della monarchia assoluta, sempre in Francia, alla fine del ‘700. Rispetto ad allora le carte si sono mescolate e la borghesia (da sempre sostenitrice del liberismo) si è liquefatta con la classe operaia, anch’essa mutata radicalmente, per mischiarsi con la classe contadina, diventata cittadina con il fenomeno delle migrazioni e per diventare piccola imprenditoria, anch’essa non più liberista, ma protezionista. In questo quadro di confusione e commistione dei ruoli (o, per dirla meglio, dei ceti) s’innesta quel movimento di antipolitica che in Italia, lo sappiamo, si è tramutato in forza politica, mentre in Francia si sta evidenziando oggi con le proteste di piazza. Del resto non stupisce che una delle richieste dei gilet gialli sia quella di istituire dei referendum di iniziativa dei cittadini, esattamente come vorrebbe fare il M5S in Italia, proprio per la sfiducia che la gente ripone nella democrazia rappresentativa vista, giova ribadirlo, come rappresentanza degli interessi economici internazionali e non come rappresentanza del popolo.

Del resto l’antipolitica, nel corso degli anni che stiamo vivendo, si è trasformata in nazionalismo (e non solo in Francia o in Italia, il fenomeno è chiaramente globale) il quale è il primo, vero, grande ostacolo al globalismo liberista.

I nazionalismi

Ma la cura – ahimè – è peggiore del male

Perché il protezionismo, che è alla base dei nazionalismi, è solo una grande truffa, una reazione di pancia ad un problema che invece andrebbe risolto con la testa, ossia con una lettura storica della realtà e con una riflessione politica capace di porsi in contrasto sia con il liberismo che con il nazionalismo. Una riflessione politica che non etichetti subito le proteste come eterodirette, fasciste o futili ma che le analizzi, perché se è vero che tra i gilet gialli serpeggiano gruppi di estrema destra è anche vero che le stantie etichette politiche ormai sono superate e la gente chiede una soluzione ai propri problemi, indipendentemente dal colore politico di chi gli manifesta accanto.

Dunque il protezionismo e i nazionalismi sembrano essere, per molti, la soluzione. Anche in Italia è accaduto lo stesso fenomeno, solo che, per ragioni storiche e culturali, non si è concretizzato subito in scontri di piazza organizzati e condivisi, come accaduto in Francia con i gilet gialli. Certamente il voto del 4 marzo ha favorito il raffreddamento della ribellione istintiva, ma non è sicuramente grazie al governo giallo-verde che in Italia abbiamo evitato gli scontri di piazza. Sono solo stati congelati.

Una cosa è certa. L’esperienza dei gilet gialli si replicherà in altri paesi europei, ma ogni volta sarà un fallimento, perché le ribellioni istintive non troveranno mai una concretezza operativa politica fin quando non si riuscirà ad analizzare la realtà storica e a canalizzare il malcontento in un organismo politico capace di interpretarla, di idealizzare un obiettivo e di raddrizzare le storture poste in essere dal liberismo e dal suo alter ego, il nazionalismo.

Come lucidare i fari dell’auto con 5 centesimi

lucidatura fari auto

La voglia di scrivere quest’articolo sulla lucidatura dei fari è partita da una mia esperienza personale e ho pensato di condividere con voi, miei quattro cari lettori, questa chicca di vita.

Tempo fa dovevo fare la revisione alla mia auto.

Quatto quatto vado dal meccanico autorizzato e gli lascio la macchina. Nemmeno il tempo di voltare l’angolo per andare al bar (avrei dovuto riprenderla dopo circa mezz’ora), mi chiama e mi dice: “senti barbù, qua la macchina non passa la revisione perché i fari sono troppo opachi”. “E che devo fare?” rispondo io tutto trafelato. “Niente, li devi far lucidare”. Ora, siccome nella mia vita non mi sono mai posto il problema della lucidatura dei fari dell’auto e siccome forse l’arguto meccanico era troppo zelante oppure troppo furbo, mi ha proposto di lucidarli lui per la modica cifra di 25,00 € a faro.

“Madò, 50 euro per lucidare i fari?”. Questo ho pensato mentre gli dicevo: “Aspetta, me la riprendo e la porto altrove”, fiutando inconsciamente l’imbroglio.

Al ché riprendo la macchina e mi dirigo tutto convinto presso il mio carrozziere di fiducia il quale si rende disponibile a lucidare i fari per la cifra più ragionevole di 10,00 € a faro.

Dopo poco meno di un’ora ritorno dal carrozziere e trovo la mia piccola auto tutta bella lucida, con i fari che sembrano nuovi.

“Wow” ho pensato “e chi se l’aspettava di avere fari così fighi?”.

Inutile dire che la macchina ha passato la revisione e che mi sono goduto i fari lucidi per qualche mese, poi, dovendo tenerla sempre parcheggiata fuori, tra caldo, freddo, pioggia e intemperie varie, i fari sono tornati immantinente opachi.

Un giorno, girovagando senza meta sui virtuali lidi di Facebook, mi sono imbattuto in un post del classico gruppo vendo-compro-scambio, in cui un tizio si proponeva come lucidatore di fari a domicilio per soli 15,00 € a faro. Lì ho pensato: “vabbè, 5,00 € in più rispetto al mio carrozziere, ma ci sta, dato che fa un servizio a domicilio”. I numerosi commenti di gente interessata mi hanno indotto a pensare di non essere il solo ad aver avuto l’annoso problema dei fari opacizzati.

Tra l’altro, non essendomi mai posto il problema, ho sempre immaginato che lucidare i fari voglia dire: smontarli, pulirli minuziosamente con chissà quale prodotto specifico e poi rimontarli. Insomma, una cifra che va da 10,00 a 15,00 € a faro (25,00 no, è un furto!) può sembrare ragionevole.

Poi l’altro giorno, sempre vagando tra l’eterea rete e zompettando tra un video e l’altro di YouTube, ho visto che c’è chi sostiene che i fari possano essere lucidati con la coca cola, bevanda che – stando ai tanti esperimenti in rete – funge per tutto tranne che per essere bevuta. Un altro video correlato, invece, sosteneva che i fari possano essere lucidati con il dentifricio.

Ora, siccome sono spilorcio e non ho voglia di spendere 2 euro e 20 per una bottiglia di coca-cola e ottenere un risultato incerto (ma poi sono anche un fiero boicottatore della zuccherosa bevanda) ho pensato che in fondo due dita di dentifricio non mandano in rovina nessuno. E così, armato di tovagliolo, dentifricio e tanta buona volontà, ho spalmato un poco di Mentadent sui fari della mia amata auto. Risultato? In una sola spalmata e in un risciacquo con acqua di rubinetto, sono tornati lucidi come quando l’ho comprata nuova-usata dall’autosalone sotto casa! E mentre risciacquavo e vedevo i dettagli dei filamenti della lampadina alogena, un brivido di piacere mi è scorso lungo la schiena, provocandomi un orgasmo manual-intellettuale che solo la visione di una bella…utilitaria nuova può compensare.

Dunque con circa 5 centesimi complessivi (calcolati a occhio) di dentifricio, tovagliolo e acqua, ho ottenuto lo stesso risultato che con 10,00 (15,00 o addirittura 25,00!) euro…però a faro.

Siccome fuori piove e ho un pessimo rapporto con le fotocamere, non ho voglia-tempo di fare la foto dei fari nuovi-nuovi. Ma vi posso assicurare che il risultato vi lascerà sbalorditi. Provare per credere.

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Lino Banfi all’UNESCO!

Lino Banfi UNESCO.

Lino Banfi è stato nominato dal Governo italiano come membro del Consiglio Direttivo della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO.

Come stabilito dal Decreto n. 4195 del 24 maggio 2007, i membri vengono scelti discrezionalmente dai vari Ministeri nonché dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e da Camera e Senato.

Dato il ruolo importante che ha la commissione nella salvaguardia, valorizzazione e promozione del Patrimonio Culturale e Scientifico italiano, i membri vengono solitamente scelti per alti meriti e riconoscimenti nel campo culturale e scientifico.

La Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO, difatti, istituita nel 1950, ha lo scopo di favorire la promozione, il collegamento, l’informazione, la consultazione e l’ esecuzione dei programmi UNESCO in Italia.

Cosa fa l’UNESCO?

UNESCO logo

In breve ecco cosa fa l’UNESCO:

  • promuove l’educazione e l’accesso ad un’istruzione di qualità come diritto umano fondamentale e come requisito essenziale per lo sviluppo della personalità;
    Costruisce la comprensione interculturale anche attraverso la protezione e la salvaguardia dei siti di eccezionale valore e bellezza iscritti nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità;
  • Persegue la cooperazione scientifica per rafforzare i legami tra le nazioni e le società al fine di monitorare e prevenire le catastrofi ambientali e gestire le risorse idriche del pianeta;
  • Protegge la libertà di espressione come condizione essenziale per garantire la democrazia, lo sviluppo e la tutela della dignità umana.

Negli anni l’UNESCO ha dato vita a numerose convenzioni che si sono rivelate utili nella tutela del Patrimonio Culturale globale e nella salvaguardia della diversità culturale, materiale e immateriale. Basti ricordare le numerose Convenzioni che si sono susseguite dal 1954 ad oggi e che si trovano qui.

Dato dunque il ruolo delicato e tecnico che ha la Commissione e data la profonda preparazione culturale e politica dell’attuale classe governante, non stupisce la nomina di Lino Banfi, il quale certamente è un esponente altissimo della Cultura commediografica sexy degli anni ’70 e per chi è laureato all’Università della Vita è chiaramente un punto di riferimento indiscutibile.

Il programma di Lino Banfi all’UNESCO

Detto ciò sono riuscito ad ottenere la bozza del programma che Lino Banfi attuerà presso l’UNESCO e ve la posto in anteprima.

lino_banfi_unesco

  • Aggiornare la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale aggiungendo tutta la cinematografia sexy degli anni ’70, quale elemento imprescindibile per la formazione delle nuove generazioni;
  • Diffondere la cultura di “La soldatessa alle grandi manovre” presso ogni apparato militare internazionale;
  • Diffondere la cultura di “La liceale seduce i professori” e “la ripetente fa l’occhietto al preside” presso ogni istituto scolastico di ordine e grado;
  • Sostituire la dieta mediterranea (Patrimonio Unesco dal 2013) con la più salubre dieta composta da “Spaghetti a mezzanotte” e “Cornetti alla crema”;
  • Proporre l’inserimento nella World Heritage List dell’UNESCO i seguenti elementi culturali materiali: “Bar dello Sport” e “Grandi Magazzini”, in quanto elementi simbolici principali dell’attuale assetto culturale italiano;
  • Aggiungere all’elenco del Patrimonio Immateriale termini quali “madonnasantissimadell’incoroneta” e “occhi malocchio prezzemolo e finocchio” quali espressioni che le comunità, i gruppi e gli individui italici riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale;
  • Inserire nell’elenco dei siti Patrimonio dell’Umanità Andria e Pomigliano d’Arco (ad adiuvandum) in quanto culla delle più alte espressioni politiche e culturali che l’Italia offre ai nostri giorni.
  • Sostituire tutte le formule scientifiche attualmente adottate dalla Comunità scientifica internazionale con questa formula: “Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio, ego me baptizzo contro il malocchio. [sputare nella vasca] E con il peperoncino e un po’ d’insaléta ti protegge la Madonna dell’Incoronéta; con l’olio, il sale, e l’aceto ti protegge la Madonna dello Sterpeto; corrrrrno di bue, latte screméto, proteggi questa chésa dall’innominéto.”

La realizzazione del programma di Banfi porterà sicuramente lustro all’Italia, che diverrà presto un faro per la Civiltà Occidentale quale espressione di superamento degli stantii e logori concetti scientifici e culturali ormai superati. Perché la Scienza e la Cultura sono cose noiose, mentre Banfi porterà alla Comunità internazionale un nuovo paradigma.

Certo vien da chiedersi come mai Lino Banfi nel 2013 dichiarò di voler votare per sempre Berlusconi “anche se uccide 122 persone” (ma pure Renzi andava bene) e oggi si dichiara grillino. Beh, come direbbe lui stesso “che chezzo me ne frega a me!”