Global tax: differenze tra Noi e Loro

Banda bassotti e global tax

Una brevissima analisi sulle differenze tra noi e loro. Dove “noi” siamo il popolo dei lavoratori, cui lo Stato porta via, tra tasse, imposte, dirette, indirette, addizionali, contribuzione, bolli e chipiunehapiunemetta, a chi un terzo a chi più della metà del reddito o del salario. “Loro” sono le Società transnazionali, specie del settore digitale, che … Leggi tutto

Il turco capitalismo

turco_scacchi

Gli algoritmi e l’intelligenza artificiale, per quanto complessi, sono però il frutto del lavoro umano, in particolare di milioni di persone invisibili che vengono sfruttate dal turco capitalismo, nell’ottica di un’automazione spesso illusoria. A margine di queste brevi considerazioni, un commento alla proposta di L.R. Lazio “Norme per la tutela e la sicurezza dei lavoratori … Leggi tutto

Il GDPR spiegato semplice

GDPR

Il GDPR, acronimo di General Data Protection Regulation è il nuovo regolamento generale europeo sulla protezione dei dati (Regolamento UE 2016/679) che si prefigge l’obiettivo di tutelare in modo più stringente rispetto al passato la privacy dei cittadini europei e di chi risiede nel territorio europeo.

Il regolamento è già entrato in vigore nel 2016, ma sarà efficace a partire dal 25 maggio 2018, data in cui si presume che tutti i destinatari del provvedimento (ossia: Enti Pubblici, Imprese, professionisti, ecc.) si saranno adeguati alla normativa. Ma sappiamo bene che non è così e che a meno di un mese dall’inizio dell’applicazione del regolamento sono tante le persone che non ne conoscono l’esistenza o che ancora non si sono adeguate.

Quest’articolo nasce quindi dall’esigenza di spiegare in modo semplice le pratiche necessarie per adeguarsi al GDPR ed è rivolto soprattutto a micro imprese, artigiani e liberi professionisti che rappresentano la maggior parte del tessuto produttivo nazionale. Non toccherò argomenti che riguardano le PMI e le multinazionali, per cui il GDPR impone misure più stringenti, né mi rivolgerò a quelle imprese o start-up ad alto contenuto tecnologico che gestiscono numerosi dati personali degli utenti in modo da profilarli e rivenderli. L’obiettivo è quello di rivolgermi a tutti coloro che si trovano a trattare dati personali ma non ne fanno un business, ossia alla gran parte delle attività economiche italiane.

I principi del GDPR

Iniziamo col dire che i tre pilastri su cui si fonda il GDPR sono: il principio di accountability, un approccio ai dati by design e by default (tra poco ci torneremo) e una gestione preventiva in riferimento alla valutazione dei rischio e alla valutazione d’impatto sulla raccolta dei dati.

Altri principi del GDPR

Gli altri pilastri su cui si fonda il nuovo regolamento sono: Principio di liceità e correttezza del trattamento nei confronti dell’interessato (i dati devono essere corretti e ci dev’essere un consenso informato); Principio di trasparenza (i dati devono essere facilmente accessibili da parte del titolare e le comunicazioni devono essere chiare e comprensibili da parte di chi gestisce i dati); Principio di limitazione e di minimizzazione dell’uso dei dati (ossia occorre richiedere solo i dati strettamente necessari a fornire il servizio a cui l’utente è interessato); Principio di esattezza (i dati devono essere esatti e aggiornati qualora non lo fossero); Principio della limitazione temporale (i dati possono essere conservati per il tempo necessario a raggiungere le finalità perseguite da chi li tratta); Principio di integrità e riservatezza (i dati devono essere al sicuro e protetti da trattamenti non autorizzati oppure da eventuali danni).

A chi si rivolge il GDPR?

A tutti coloro che trattano i dati personali di fornitori, clienti, utenti, dipendenti, ecc. e che operano sul territorio europeo oppure al di fuori dell’Europa ma trattano i dati di cittadini e residenti nel territorio europeo. In altre parole, che tu abbia sede al di fuori dell’UE non importa, l’ambito di applicabilità del regolamento si estende a tutti coloro che hanno a che fare, direttamente o indirettamente, con i dati di qualunque persona si trovi a risiedere sul territorio europeo.

Soggetti esclusi

Gli unici soggetti che non sono destinatari del provvedimento sono le persone fisiche che trattano i dati per finalità esclusivamente personali o domestiche nonché i Tribunali penali (e le procure) per finalità giudiziarie relative al perseguimento di reati.

Il principio di accountability

Questo è il principio cardine del GDPR. Si traduce con responsabilizzazione e significa che il titolare del trattamento dei dati (che spesso coincide con il titolare dell’Azienda) ha l’obbligo di dimostrare in modo documentale l’adeguamento alle prescrizioni del Regolamento mediante l’adozione di misure tecniche (per la sicurezza dei dati) e organizzative (politiche e procedure interne, formazione del personale, verifiche periodiche, ecc.) adeguate. In altre parole si può intendere come una sorta di inversione dell’onere della prova, per cui, a differenza del passato, spetta al titolare del trattamento dimostrare di aver messo in campo tutte le misure tecniche e organizzative necessarie per conformare l’utilizzo dei dati al nuovo regolamento. La normativa, detta in altri termini, dà per scontato che in caso di perdita o furto dei dati il responsabile è solo il titolare del trattamento e a lui toccano sanzioni molto pesanti (ci torniamo tra poco).

Tuttavia il regolamento non dà indicazioni precise su quali siano le misure pratiche da adottare, ma lascia intendere che si dovrà valutare caso per caso, in base alla tipologia di organizzazione, alla natura e alle finalità dei dati raccolti.

Privacy by design e Privacy by default

Sono due principi che, di fatto, applicano il principio di accountability. Nonostante l’anglofonia ostica, vogliono dire semplicemente che bisogna adottare tutte le misure di protezione dei dati sin dalla fase di progettazione del trattamento e che i dati vanno utilizzati, per impostazione predefinita, al solo fine per cui sono stati raccolti. Così non è chiaro? Facciamo un esempio chiarificatore in relazione ai due principi.

Privacy by design

Se tu hai intenzione di aprire un e-commerce, prima di farlo dovrai stilare un documento in cui raccoglierai tutte le tipologie di dati personali che intendi raccogliere (es. nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, email, ecc.) e indicare in che modo intendi raccogliere e proteggere questi dati (es. dicendo che li terrai su un server sicuro oppure li passerai sul tuo gestionale e, in tal caso, dovrai dire chi accede a questi dati, come sono conservati e quali protezioni stai usando in caso di un eventuale attacco hacker).

Privacy by default

In questo caso dovrai creare un documento in cui dici che i dati che raccogli sono finalizzati solo per uno o più scopi per cui tu hai dato l’informativa all’utente. Ad esempio, se l’utente ti contatta attraverso il form di contatto del tuo sito, dovrai scrivere che, di default, i dati che raccogli serviranno solo a ricontattare il cliente e a proporgli i tuoi prodotti/servizi, mentre non userai quei dati per mandargli newsletter, sempre se non ha espresso un esplicito consenso a questo tipo di trattamento. Parimenti non userai i suoi dati per vendergli pubblicità di terze parti, sempre se non lo hai reso edotto nell’informativa. Insomma, dovrai standardizzare il processo e usare quei dati solo per le finalità che ti sei prefissato e per cui hai scritto un’informativa chiara.

La valutazione del rischio

Questa è un’altra operazione che dovrai fare per rispondere al principio di accountability. In caso di un ipotetico data breach (rischio di perdita, distruzione o diffusione indebita, ad esempio a seguito di attacchi informatici, accessi abusivi, incidenti o eventi avversi, come incendi o altre calamità) come fai a recuperare i dati o a contattare gli utenti per dire loro che i dati sono andati persi o sono stati rubati? Quest’evento – anche se ipotetico e molto remoto – dovrebbe essere preventivato e scritto su carta. In altre parole devi indicare tutte le misure e le garanzie previste per una adeguata protezione dei dati personali trattati. Come farlo? Anche se sembra complicato è semplice. Rifletti: Qual è la natura dei dati che potrebbero essere violati? Quanto gravi potrebbero essere i danni  causati agli individui a cui i dati violati si riferivano? Se effettui una copia di backup almeno una volta al mese, se hai adottato protocolli di sicurezza (https) sul tuo sito web, se ai dati che hai sul gestionale non accede nessuno tranne te, allora sei apposto. Devi solo riportare su carta quello che già fai e valutare l’impatto di un eventuale (remoto) attacco nei tuoi confronti o di un’eventuale perdita di dati a seguito di un evento insolito. In altre parole devi solo valutare un ipotetico rischio e scrivere quali possono essere le cause e quali le conseguenze.

Se poi il data breach accade davvero, la norma impone che occorre comunicare la violazione all’autorità di controllo (il Garante della privacy) entro 72 ore dal momento in cui ne sei venuto a conoscenza.

Come adeguarsi al GDPR in sintesi

L’adeguamento al GDPR ti porterà via si e no mezza giornata di lavoro. Quello che dovrai fare è semplice: fermati a pensare ai dati personali che tratti: clienti, fornitori, utenti del sito web, dipendenti. Poi pensa alla natura dei dati: nome e cognome? Indirizzo? Numero di telefono? Fai una lista della tipologia di dati che tratti e metti tutto per iscritto su un foglio excel (lo chiamano registro del trattamento, obbligatorio per aziende con più di 250 dipendenti, ma comodo per te da usare in quanto è un buon promemoria per adeguarti alla normativa). Poi su un foglio word scrivi come utilizzi quei dati. Devi solo scrivere che, per esempio, i dati degli utenti che ti contattano per ricevere un preventivo saranno usati al solo scopo di inviare il preventivo. Nulla di più e nulla di meno. Dirai, nel documento, che di default (cioè in modo predefinito) tutti i dati di quelli che ti contattano per avere un preventivo saranno usati al solo scopo di inviare il preventivo. Se hai più mezzi per ottenere dei dati, lo metterai su carta. Scriverai, per esempio, che i dati degli utenti ti arriveranno da:

  • form di contatto
  • ordine sul sito web
  • ordine telefonico
  • ordine da email
  • altri sistemi

Fatto ciò dovrai scrivere sullo stesso foglio word in cui dirai ogni quante volte effettui un backup dei dati, dove li salvi e chi può accedere a quei dati. Poi dirai i sistemi che usi per conservarli. Ad esempio scriverai che salvi i tuoi dati su un hard disk esterno e che lo conservi gelosamente nel cassetto della tua scrivania a cui tu solo puoi accedere. Poi scriverai che in caso di potenziale attacco hacker o potenziale danneggiamento sul tuo sito web il rischio di perdita dei dati è minimo perché, in fondo, gestisci solo dati non sensibili, ma generici (cosa se ne fa un hacker di un indirizzo di consegna?). Ad ogni modo dovrai scrivere come prevedi di risolvere la faccenda in caso di perdita o furto dei dati degli utenti con cui interagisci.

Infine, se sul tuo sito web hai diversi mezzi di ottenere i dati (ad esempio un form di contatto e un carrello con cui accetti gli ordini) dovrai rilasciare un’informativa specifica per ogni sistema di acquisizione dei dati e scrivere quali sono le finalità dell’acquisizione e come tratterai i dati. Tra l’altro, per ogni informativa dovrai rendere edotto l’utente che è suo diritto accedere ai dati, rettificarli, cancellarli, ecc.

Se sponsorizzo la mia azienda su Google Adwords o su Facebook ads che succede?

Il GDPR ha espressamente impostato un bilanciamento d’interessi tra il diritto degli utenti e l’interesse dell’Azienda a fare marketing diretto. In altre parole possono essere trattati i dati di utenti in caso di pubblicità sui social o su google, salvo obbligare il titolare del trattamento alla minimizzazione dei dati, per cui si dovranno usare quanti meno dati possibile per la finalità del trattamento. Insomma, il nuovo regolamento mette l’utente nelle condizioni di compiere un consapevole esercizio dei poteri di controllo sui propri dati, garantendogli il diritto all’informazione, all’accesso, alla rettifica, alla cancellazione, alla limitazione del trattamento e il diritto di opposizione dei dati che lo riguardano.

Sanzioni

Le sanzioni sono pesanti. Il regolamento dice: fino a 10 milioni di euro o fino al 2% del fatturato mondiale annuo se superiore. In caso di violazione degli obblighi del titolare o del responsabile del trattamento fino a 20 milioni di euro o fino al 4% del fatturato mondiale annuo se superiore (e non il 2% o 4% del tuo fatturato, come qualcuno sostiene…). Sembrano cifre assurde, ma è capitato in passato di assistere a sanzioni comminate a piccole aziende per importi di 10.000,00 euro solo perché non avevano rilasciato un’informativa sull’uso dei cookie. Quindi non è detto che si arrivi a cifre così elevate, ma anche 1.000,00 euro di multa sono pesanti se rivolte a micro imprese.

Io non tratto dati personali

Ne sei sicuro? Il regolamento si rivolge a tutti coloro che, anche incidentalmente, trattano i dati delle persone. Quindi, per esempio, se hai un locale di generi alimentari con un impianto di videosorveglianza, dovrai adeguarti al regolamento seguendo le prescrizioni imposte a tutti gli operatori a cui è rivolto. Lo stesso vale per i dati di eventuali dipendenti o dei fornitori. Quindi il GDPR non si rivolge solo a realtà che operano su internet, ma a tutti coloro che, direttamente o indirettamente, hanno a che fare con i dati delle persone, inclusi quelli biometrici. In buona sostanza, se hai installato un impianto di videosorveglianza nel tuo negozio, dovrai adeguarti al nuovo regolamento, valutare i dati che raccogli e rilasciare un’informativa adeguata.

GDPR e Codice della Privacy

Come dice il proverbio? Fatta la legge, trovato l’inganno. Il nostro codice della Privacy (D.Lgs. 196/2003) sarà abrogato, perché i regolamenti dell’UE sono, per loro natura, direttamente applicabili presso gli Stati membri. Però tra le fonti normative sono, di fatto, sullo stesso piano delle leggi ordinarie dello Stato italiano. Quindi che succede? Succede che al momento il GDPR non sarà ancora applicato in quanto è necessario che il Parlamento crei una legge di raccordo tra la vecchia e la nuova normativa, soprattutto nelle parti in cui confliggono. Quindi, di fatto, finché non ci sarà un provvedimento normativo ad hoc il GDPR non dispiegherà tutti i suoi effetti e, paradossalmente, sarà ancora in vigore il D.Lgs. 196/2003. Difatti il 21 marzo 2018 il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legislativo che introduce disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento, ma ancora non è stato ultimato l’iter di approvazione nelle commissioni parlamentari e in aula. Comunque è sempre bene arrivare preparati all’appuntamento e non c’è niente per cui preoccuparsi. Il GDPR, per le micro imprese e per i professionisti, sarà un’occasione per riflettere sui dati che raccogliamo e su come li trattiamo. Il resto sarà solo vuota burocrazia finalizzata ad accontentare una normativa che per i piccoli imprenditori è solo una lieve perdita di tempo.

Scarica qui i modelli GDPR liberi e gratuiti!

Facebook vi ruba i dati? Avete scoperto l’acqua calda digitale

facebook acqua calda

Mark Zuckerberg, CEO di Facebook, fa mea culpa e ammette la responsabilità nel segreto di Pulcinella in riferimento alla conservazione illegale dei dati di 50 milioni di utenti da parte di Cambridge Analytica. Pare brutto dirlo, ma l’avevo detto qualche mese fa, nell’articolo Uscite dai Social. Se decidi di entrare nel meraviglioso mondo di internet … Leggi tutto

Lercio e gli anti-vax

lercio vaccini

Non ho mai voluto prendere posizione sulla diatriba pro-vax / anti-vax, anche perché ritengo l’obbligo vaccinale un’imposizione eccessiva e, sotto certi versi, ingiustificata, ma la tematica è stata affrontata in modo forzoso dal Governo in una sorta di risposta di pancia alle sempre più eccessive reticenze, da parte di numerosi genitori, nell’assolvere al dovere di vaccinare i propri figli, per evitare l’insorgenza di malattie che ritenevamo superate da tempo.

Insomma, su questo tema tutti hanno torto e tutti l’hanno affrontato nel peggiore dei modi. Il Governo perché impone con legge un dovere igienico-sanitario che spetterebbe ai genitori e che, fino ad oggi, è stato assolto in modo pressoché sistematico senza grosse ripercussioni; i cosiddetti anti-vaccinisti perché, spesso preda di false notizie, complottismi da quattro soldi, pareri di pseudo-scienziati e leggende metropolitane, mettono in serio rischio la salute pubblica, evitando ai propri figli anche le vaccinazioni minime.

Pro-vax e anti-vax, in questi mesi, se le danno di santa ragione a suon di post, commenti, condivisioni, tweet e dibattiti televisivi e digitali, in una sorta di epopea in cui soprattutto i no-vax muovono accuse, allarmi, urla e insulti variopinti, prospettano oscure trame ordite tra Governo e grandi Aziende farmaceutiche per fare affari d’oro sulle spalle dei poveri italiani e propongono dissertazioni scientifiche – fatte rigorosamente sui social – basate su tanti proclami ma pochi contenuti tecnici. Del resto se un medico no-vax o pro-vax spiegasse scientificamente l’utilità o meno dei vaccini, con (doveroso) linguaggio tecnico e con grafici, dati, analisi, chi li capirebbe? Nessuno, nemmeno un medico generico forse riuscirebbe a districarsi tra i meandri di esposizioni scientifiche così complesse. Ed è per questo che – fino ad oggi – la gente tendeva a fidarsi della Scienza.

Ma ora, soprattutto a causa del dilagare, su internet, di informazioni di basso profilo, facile comprensione e spesso di dubbia provenienza, e grazie alla nota propensione dell’italiano medio a imboccarsi qualsiasi cosa (ricordo che siamo il Paese con il primato assoluto in materia di analfabetismo funzionale), può capitare che persino un articolo web proveniente da un notissimo giornale di satira venga scambiato per vero e dia origine a centinaia di condivisioni la cui lettura è uno spasso nel delineare l’archetipo dell’analfabeta funzionale (e pure strutturale).

Tutto è iniziato con la condivisione di quest’articolo del Lercio, intitolato “La figlia di Roberto Burioni rifiutata dalla scuola: non è vaccinata”, da parte di un noto no-vax, un certo Salvatore Morelli, di professione logopedista (una specializzazione chiaramente votata alla profonda conoscenza dei vaccini), che – a suo dire – lo avrebbe condiviso per scherzo per sfottere il collega Burioni.

Qualunque sia stata la sua intenzione, il risultato è che l’articolo è stato ricondiviso da centinaia di persone, tutte che credevano alla bontà della notizia. Di seguito alcuni esempi

Ora, un paio di riflessioni.

Da quel che ne so, se uno vuol fare dell’ironia, lo lascia intendere. In questo caso il prode Morelli ha sì commentato la notizia con una frase vagamente ironica (Prof Roberto Burioni mai mi sarei aspettato questo da te, accompagnata da una faccina sorridente), ma non ha specificato la cosa essenziale: che l’articolo del Lercio era evidentemente un articolo di satira. Se lui l’avesse capito o meno non è dato saperlo, visto che il dott. Morelli non ha dimostrato di saper sottolineare l’ironia della faccenda.

lercio-vaccini-2
Il post del dott. Morelli

Ciò detto, va evidenziata un’altra cosa, che più mi rattrista e mi diverte allo stesso tempo.

Lercio esiste da diversi anni e tutti sanno che fa satira. Ma vabbè, facciamo conto che non tutti lo sanno.
L’articolo parte con “Epidemi (CO)“, notissimo paese in provincia di Como, gemellato con “Presiden (TA)“, paese d’origine della Boldrini (lei, chissà perché, non è stata citata dai no-vax). Ma vabbè, sta finezza non l’hanno colta tutti.
Cita un certo “Libero Di Scelta”, autore del famosissimo sito web “www.AMeNonMiFregate.it”. Ma vabbè, facciamo finta che non tutti hanno dimestichezza con nomi e domini.
Però – per dio(gene) detto il cane – sull’“analisi dell’ascendente ematoencefalico” e sulla cura “con i fiori di Bach o al limite con le palle di Mozart” poteva sorgere, tra i lettori, il seppur minimo sospetto che si tratta di satira, ma facciamo pure facile ironia o supercazzola? No, eh? Proprio nulla? Quindi questa è l’ennesima dimostrazione che la gente non capisce ciò che legge oppure condivide i contenuti e si fa un’opinione solo leggendo un titolo. E, dunque, potrei mai aderire alle teorie propugnate da questa gente? Non so, devo informarmi meglio sul tema vaccini. Quasi quasi interpello un fitopatologo vegetale, un nutrizionista o un veterinario.

Laura Boldrini e l’italica ignoranza

Lo ammetto. A me Laura Boldrini non sta tanto simpatica. Ho iniziato a storcere il naso per le sue inutili battaglie linguistiche sulla declinazione al femminile di parole tradizionalmente declinate al maschile, ma di significato neutro, perché riferito ai ruoli, quindi Sindaco e non Sindaca, oppure Ministro e non Ministra o ancora Presidente e non Presidenta. 

Si può continuare con Avvocata, Architetta, ecc. Ma ho qualche dubbio su come la Boldrini declinerebbe il termine Geometra. Forse al maschile sarebbe Geometro? E che dire del Commercialista? Forse al maschile sarebbe Commercialisto?

Oddio, esiste pure un più raro ma non sgrammaticato Presidentessa, che si potrebbe usare, ma la Boldrini si è fissata con Presidenta, scomodando pure l’Accademia della Crusca che, con un lusinghiero panegirico, quasi in un’ardita arrampicata sugli specchi, ha dato ragione alla Presidenta, suscitando le comunissime e ovvie ire di Vittorio Sgarbi.

Mi sta anche antipatica per quell’altro aspetto, legato al sessismo, che ogni tanto (sci)orina nei suoi discorsi, anche istituzionali, come quella volta che ha fatto gli auguri a una deputata neo-mamma dichiarando espressamente – in Aula – che il papà, nella storia del parto, non c’entra nulla.

Poi c’è la storia dei migranti. La Boldrini, dopo una lunga esperienza presso l’Alto Commissariato per i rifugiati dell’ONU, nel 2013 venne eletta a seconda carica dello Stato, cioè divenne Presidente della Camera dei deputati. Chiaramente, vista la sua precedente carriera, ha da subito iniziato una battaglia per l’accoglienza e l’integrazione dei migranti, creando in taluni disappunto e in molti altri un crescente odio nei suoi confronti, soprattutto da parte dei tanti razzisti che si annidano sui social e che, ad ogni uscita della Presidenta, si scagliano contro di essa con commenti di inaudita violenza, volgarità e odio, molto spesso contornati da errori grammaticali che nemmeno l’audace Accademia della Crusca potrebbe approvare.

E’ vero che la Signora Boldrini non dimostra spesso di avere quel senso dello Stato tipico di chi ricopre un ruolo istituzionale così elevato né dimostra di saper distinguere quando parlare in qualità di Presidente della Camera e quando in veste di cittadina o attivista per i diritti civili, ma ciò – ovviamente – non comporta una violenza così esasperata, continua, quotidiana, feroce, illogica, meschina e spudorata nei suoi confronti.

boldrini_offese_facebook
L’ultimo post di Laura Boldrini su Facebook in cui annuncia di voler querelare chiunque la offenda, lo trovi qui. Da notare il commento di un tizio che dice: “Dovrebbe riflettere sul perché le persone le rivolgono questi deplorevoli commenti.
 Diciamo che lei non fa nulla per farsi benvolere. La Tatcher non era benvoluta, ma cambiò il volto, ed in meglio, della Gran Bretagna.
Invece di sostenere il popolo italiano dà la parvenza di supportare chi viene da fuori, dimenticandosi gli stenti a cui questo Stato non è in grado di porre rimedio.
Lei risponderà alla Costituzione su cui ha giurato e alla sua coscienza guardandosi allo specchio”.

Premesso ciò, però va puntualizzata una cosa. E lo dico a vantaggio non degli idioti (perché tali sono) che l’hanno riempita di epiteti e volgarità inaudite, ma di tutti quelli che in questi anni hanno motivato i commenti dei suoi post o dei suoi tweet sempre con le stesse argomentazioni: tu pensi ai migranti e agli italiani, che soffrono la crisi, stanno male e bla bla bla, non ci pensi.

Questa gente, che si crede intelligente perché non offende, ma motiva il proprio odio nei confronti della Boldrini con commenti del genere, dimostra tutta la propria ignoranza in materia istituzionale e quindi vorrei soltanto ribadire un concetto banale, materia di educazione civica fatta alle elementari o alle medie, e cioè che quello del Presidente della Camera non è un ruolo politico, ma istituzionale. Insieme al Presidente del Senato è la seconda carica istituzionale, dopo il Presidente della Repubblica, e il suo ruolo è solo quello di:

  • provvedere al corretto funzionamento della Camera dei deputati, mantenendo l’ordine e dirigendo la discussione
  • garantire l’applicazione del regolamento
  • provvedere al buon andamento delle strutture amministrative della Camera
  • presiedere le riunioni del Parlamento in seduta comune e convocare le camere per l’elezione del Presidente della Repubblica

Queste, in sintesi, le funzioni del Presidente della Camera. Quello di aiutare gli italiani, far progredire l’economia, tutelare i diritti della cittadinanza o provvedere alla gestione del Paese è un ruolo politico che spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Ministri e, in misura minore, ai Presidenti di Regione, nonché ai partiti di riferimento e ai sindacati, che sono riconosciuti dalla Costituzione. Insomma, a tutti quelli che ricoprono ruoli politici, cioè di decidere quali soluzioni adottare per risolvere determinati problemi o gestire la cosa pubblica. Capite bene che quando la si offende perché non fa nulla per gli italiani, è ovvio che sia così, non è il suo ruolo. Dunque quando leggo gente che paragona la Boldrini alla Thatcher o la offende perché pensa ai migranti e non agli italiani, mi sovviene alla mente quell’antico istituto della Grecia classica, cioè il blakennòmion, ossia, letteralmente, la tassa sugli stupidi, che si applicava a coloro che facevano ricorso ai consigli e agli oroscopi degli astrologi, perché considerati idioti. Beh, suggerisco alla Boldrini, anziché di querelare questa gente, di proporre al Parlamento una Legge che multi chi dimostra palesemente un’oggettiva ignoranza (oltre all’odio), sarebbe un modo straordinario di far cassa e risollevare l’economia italiana (chissà, magari anche di limitare questi fenomeni da baraccone). E la libertà d’opinione? Si fotta. Le opinioni sono tali quando sono sensate e informate. Il resto è solo putrida immondizia di cui possiamo farne a meno.

Mannaggia agli ambulanti del Salento!

ambulanti cacciati spiaggia salve

Ogni giorno, passeggiando per le vie del mio paesello, per fare compere e commissioni, lo vedo sempre lì, nello stesso angolo, col suo carretto, a vendere mercanzia varia: lampadari, orologi, oggetti tecnologici degli anni ’80 (ma che ancora, con ostinazione, continua a vendere), accendini, bracciali e altri oggetti che ormai non riconosco più, persi tra la polvere e le plastiche che li avvolgono ormai ingiallite dal tempo. Lui è ancora lì, nel freddo gelido dell’inverno o sotto al sole caldo (mai come quest’anno) di agosto.

E’ un marocchino. Anzi, è IL marocchino.

Quando ero piccolo, tutti i venditori ambulanti, siano stati essi senegalesi, tunisini, turchi o di chissà di quale parte del mondo, dalle mie parti venivano chiamati i marocchini. Il termine “marocchino”, quindi, non indicava la provenienza geografica, ma la professione: eri un ambulante? Eri, quindi, un marocchino. Ma quello del mio paese è per davvero un marocchino, quindi ne deduco che siano stati i primi a venire nel Salento e a svolgere la nobile professione dell’ambulante. Poi, col tempo, altra gente, di altre etnie e provenienze, hanno arricchito i nostri paesi e le nostre spiagge svolgendo lo stesso lavoro, ma per noi erano sempre li marucchini.

Eccolo lì. Lo vedo mentre, con la macchina e sotto l’afa micidiale di un caldo anomalo (che mi fa sudare peggio che in Marocco), percorro quella stessa via per andare prima alle poste e poi al forno, a prendere un po’ di pane. E’ sempre lì, con il suo carretto, fermo all’ombra a contemplare il nulla e a salutare con impercettibili segni del capo gli automobilisti che strombazzano con il clacson mentre gli passano accanto. Tanto tutti lo conoscono e lui conosce tutti.

Mi sono sempre chiesto a cosa pensasse durante le lunghe ore che passa seduto sul ciglio di quella strada. A me sembra, dallo sguardo e da quel sorriso tenero e sornione, che contemplasse l’infinito svolgersi di una vita ciclica e finita, fatta di abitudini e facce note, di auto che cambiano e volti che invecchiano. Del resto lui è sempre lì, in quell’angolo di strada, da ché ne ricordi.

E poi l’estate, al mare. Anche lì, passeggiando sul lungomare o sdraiati sulla spiaggia a prendere il sole, trovi li marucchini. Non so se tra di loro ci fosse anche lui, ma so che – sin da piccolo – per me rappresentavano quel complesso folklorico che contribuiva ad arricchire la spiaggia e le lunghe giornate di mare. Li vedevi passare con quei carretti, pieni di vestiti o di salvagenti, canotti, braccioli, lettini, carichi come muli, fermarsi ogni tanto per prendere respiro e poi continuare la lunga passeggiata tra i bagnanti, per poi fermarsi quando qualcuno – con un cenno della mano o un fischio – attirava la loro attenzione perché interessati ad acquistare (o forse solo ad informarsi) un materassino, un paio di braccioli o una paperella per i propri figli.

Gli ambulanti senegalesi

Poi, quasi senza accorgermene, intorno agli anni ’90, sono arrivati i senegalesi, con i sorrisi stampati in faccia e gli occhiali da sole, bracciali, treccine (da fare lì, sul momento, soprattutto ad opera di corpulente donne senegalesi) o altra merce varia. Ogni tanto li vedevi sbucare e fermarsi a chiacchierare. In quel periodo della mia prima adolescenza, frequentavamo sempre la stessa spiaggia di Porto Cesareo, sul confine tra gli scogli e la sabbia. Ai miei piacevano gli scogli, mentre io propendevo più per la sabbia, anche se mi divertivo un mondo a dar la caccia ai granchi e a saltare da uno scoglio all’altro per dimostrare ai miei le mie doti funamboliche. Però, in fondo, preferivo la comodità della sabbia e le belle signorine che la popolavano. Fatto sta che in quel periodo passava da lì ogni giorno un ragazzo senegalese, fisico atletico, alto come un giocatore di basket, nero come la pece e simpaticissimo, che aveva preso l’abitudine di fermarsi a chiacchierare con noi. Non per venderci qualcosa, ma così, giusto per parlare. Mia madre si prodigava ad offrirgli qualcosa di fresco da bere e lui si vedeva che era commosso da quest’affetto, tanto che, dopo un po’ di giorni, iniziò a raccontarci la sua vita, le sue tribolazioni e il motivo che l’aveva spinto ad abbandonare il suo paese per venire a fare l’ambulante in Italia. L’appuntamento con lui era ormai fisso e, solo ogni tanto compravamo qualche braccialetto. Non per carità, nemmeno perché obbligati o tanto meno perché indotti. Semplicemente per tenerezza e simpatia. Poi, si sa, l’estate finisce, ti fai grande, cambi spiaggia, esci con gli amici e…beh, di quel senegalese ho perso le tracce e non so che fine abbia fatto.

Gli ambulanti e la tecnologia

Poi vabbè, appunto, cambi spiaggia, vai al mare con gli amici e, tra un bagno e una partita a tressette, ti trovi l’immancabile senegalese che vende varia mercanzia sulla spiaggia. Siamo negli anni 2000 e questa volta la merce è più cool: radioline bluetooth con lettori di schede SD a 7,00 € (che ho pure comprato qualche anno fa), laser a led, occhiali da sole a specchio (brrr…) e persino tatuaggi temporanei o massaggi. Gli ambulanti sono aumentati e ognuno, pur di vendere, usa tecniche diverse e fantasiose, come quel senegalese che, sulla spiaggia più affollata di Porto Cesareo, gridava caccia li sordi ca li teni, con un dialetto perfetto e un’intonazione che ti faceva sorridere e ti faceva allibire davanti a tecniche di marketing così semplici ed efficaci.

Il tutto, va sottolineato, nel rispetto delle persone. Cioè, mai nessun ambulante ha cacato il cazzo alla gente che stazionava sulla spiaggia. Sia chiaro.

Poi si sa come sono andate le cose. Oggi ci troviamo ad assistere ad un’escalation di presenze di extracomunitari che, chiaramente, sono invadenti, ma sono spesso oggetto di forme di schiavismo da parte di negrieri (è il caso di dirlo) tutti nostrani, che si accaparrano sti poveri cristi, appena sbarcati in Italia, gli mettono in mano un po’ di merce e gli dicono: andate e vendete e se a fine serata non mi portate almeno X euro, col cazzo che mangiate. E appena fate XX euro, vi restituisco il passaporto. Questi benefattori, che danno un lavoro ai poveri ambulanti extracomunitari, sono, ovviamente, nostri compaesani, vicini di casa, ferventi cattolici, grandi frequentatori di chiese o circoli di partito, professionisti stimati e amici di tutti. Gli extracomunitari, senegalesi, tunisini o marocchini che dir si voglia, invece sono poveri cristi che non conoscono nessuno e nessuno s’incula, che si fanno i km sulle spiagge, spesso carichi come muli, si beccano le bestemmie, le parolacce o i “no grazie” (quando gli va bene) e oggi pure le beffe razziste.

Scusate, ma che è successo?

che_e_succiess

Eh, ne sono successe tante. A Torre Chianca (marina leccese) che, detto tra di noi, vi invito ad evitare per svariati motivi, uno tra i tanti ambulanti, un ragazzino di 17 anni ha quasi perso la vita, tra l’indifferenza generale di una marina stracolma di gente, il tutto a causa dell’arroganza di un paio di tizi che non mi esimo a definire due coglioni. Qui i fatti. Se non vi va di leggerli, è successo che un ambulante di appena 17 anni fu aggredito, nel 2015, solo perché un ragazzo, sedicente cliente, rubò un paio di occhiali dall’ambulante e, dopo le proteste di costui, accorsero gli adulti che, invece di deprecare l’ignobile gesto, di tutto punto presero l’ambulante e tentarono di affogarlo in acqua. Il tutto sotto gli occhi di tanti bagnanti, rimasti fermi ad osservare la simpatica scena. Qualcuno avvisò la polizia e, quando arrivarono i poliziotti, vennero accerchiati e gli venne impedito di salvare il povero ragazzo.

Mentre l’ultima (in ordine di tempo) è successa in quella spiaggia che viene definita Le Maldive del Salento (paesaggisticamente carina, non bella, che vi invito ad evitare per quello che appresso dirò), dove un accorto gestore di un lido ha fatto di tutto per eliminare gli ambulanti che – a detta sua – rovinano la bellezza del paesaggio. Nel suo accorato post, il tizio (persona è termine troppo civile da essergli attribuito) spiega che gli ambulanti “da anni rendono impossibile il riposo sulla nostra spiaggia e il godimento del panorama”, e infine – probo e onesto – aggiunge che “non meno grave (…) è l’aspetto fiscale tanto pesante per …. noi italiani !”. Ora, a parte che al tizio occorrono urgentemente lezioni di grammatica e di punteggiatura, va evidenziato che il proverbio salentino “lu ‘mboe chiama curnutu lu ciucciu” (il bue chiama cornuto l’asino) è da attribuirsi a gente come lui che – con stragrande probabilità – fiscalmente ha più scheletri nell’armadio di tanti poveri ambulanti. Ma non solo. Come una buona capra (o webete, per dirlo alla Mentana), non sta mica ad interrogarsi sul perché, chi o come ha messo lì quei disgraziati. No, chiama i carabinieri di Salve, di Tricase, di Gagliano del Capo, insieme al Comune di Salve (e giacché perché non i Marò?) per fare cosa? Rimuovere un povero Marocchino e sequestragli la merce. E, come un buon analfabeta funzionale (ma forte della sua posizione di egemonia economica sul territorio delle Maldive, del Salento, però) si fregia della sua operazione di pulizia razziale sui parchi lidi del basso Salento, così finalmente i suoi avventori potranno dormire sonni sereni sotto al solleone agostano, privi di venditori abusivi ma adagiati su lettini posizionati da autoctoni salentini magari pagati a voucher e serviti da baristi con contratti a termine, di cui, chissà, un tanto in regola e un tanto in nero, che magari ti vendono un caffè in ghiaccio a 2 euro, perché sai, nei lidi vale tanto e il personale costa assai…

E mentre il gestore del lido bestemmia contro la casta, impotente dinanzi all’ineluttabilità del destino, si scaglia contro l’unica categoria con cui può prendersela: uno più povero di lui. Perché in Italia – anche nell’Italia del Sud – povera tra i poveri, figlia della società contadina e fiera allieva del disagio e della cultura della fratellanza (o del cumpà, stamu sulla stessa barca), c’è chi ripete il clichet banale di farsi lupo con le pecore e pecora tra i lupi. Insomma, nulla di nuovo sotto al sole. Di nuovo, però, c’è che nei lidi gestiti da lupi non ci metto piede.

Uscite dai Social!

facebook social exit

Ovvero, la truffa dei Social Network che ci controllano, influenzano e decidono su di noi con oscure linee guida.

I social, si sa, sono nati per far interagire le persone, mantenerle in contatto, creare nuove relazioni, condividere ricordi, esperienze, pensieri, far conoscere prodotti o servizi, per vendere sé stessi e per far conoscere e diffondere battaglie sociali o ambientali.

Insomma, sono una cosa buona, almeno per come sono stati pensati all’inizio. Però dal 2006 ad oggi (anno in cui Facebook, il primo Social Network, ha iniziato a diffondersi in Italia) molto è cambiato, in particolare nella gestione delle relazioni da parte di una sempre più spudorata filosofia del controllo e delle influenze sociali, non tanto quella di Orwelliana memoria (che ha ispirato la concezione del Grande Fratello e che trova le sue radici nel Panopticon di Jeremy Bentham), ma più semplicemente e meschinamente quella della pianificazione strategica degli obiettivi aziendali.

Secondo tale visione gli utenti sono considerati dei meri prodotti da cui trarre ogni informazione possibile finalizzata a vendere prodotti e servizi cuciti su misura, ma, dato che la frammentazione è difficile da gestire, finalizzata soprattutto a influenzare gusti e tendenze per poter, al fine, attuare pratiche commerciali di massa precedute da esperimenti sociali di massa.

E’ evidente che in questo contesto la politica internazionale, di stampo capitalista, è attratta da questi modelli come una mosca è attratta dalla cacca, per cui entra con tutti e due i piedi nella gestione dei Social, favorisce e influenza le linee guida per la moderazione dei contenuti, decidendo cosa è conveniente diffondere e cosa, invece, va relegato nell’oblio delle relazioni sociali virtuali o, peggio, va deriso, annichilito, strumentalizzato.

Detto in altri termini, molto più sintetici, i Social sono nient’altro che prodotti per calmierare il mercato delle relazioni sociali e per controllare, gestire e razionalizzare la massa (a)critica di contenuti teoricamente liberi ma influenzati, mentre quelli potenzialmente dannosi per la tenuta del sistema sociale vengono marginalizzati, derisi (anche e soprattutto dagli stessi utenti) e, al limite, oscurati. Nemmeno così è chiaro? Allora ti rubo solo 2 minuti per spiegare meglio il concetto. Ma, come mi piace fare sempre, parto dagli inizi.

La genesi di Facebook

mark-zuckerberg-facebook
Mark Zuckerberg, l’uomo da un miliardo di dollari l’anno

Tra il 2003 e il 2004 un giovanissimo Mark Zuckerberg creò un portale finalizzato a rendere interattivo sul Web il classico faccia-libro dei college americani (da qui il nome) che raccoglieva foto, nome e corsi frequentati da ogni studente.

Dato il massiccio successo del Social, questo si diffuse rapidamente anche fuori dai campus universitari, trasformandosi da un Social per studenti a un Social per chiunque. Non più solo studenti, ma tutte le persone potevano entrare in contatto: parenti, amici, ex compagni di scuola, colleghi di lavoro, ecc.

L’idea era buona e, di lì a poco, portò alla nascita di una nuova concezione del web: non più perso nell’anonimato di nick e avatar, ma popolato da persone reali, cioè da persone che – volontariamente – inserivano sul social i propri dati personali: nome, cognome, luogo e data di nascita, foto personali, ecc., il tutto nel nome dell’allaccio dei rapporti.

Una vera rivoluzione digitale, insomma. Non che il web sia cambiato da quel momento, attenzione, perché ancora oggi, a distanza di 13 anni, sopravvivono forum, blog o chat popolati da pseudonimi e nick, ma è innegabile che Facebook abbia contribuito alla identificazione degli utenti del web.

Ma il sistema non funzionava…

Però il “sistema”, dopo pochissimo tempo, iniziò a scricchiolare, perché in effetti la gente gradiva la possibilità di interagire con persone conosciute o di riallacciare i rapporti con persone perse nell’oblio dei ricordi e magari residenti in altre parti del mondo (tanto che, per anni, è sopravvissuta la moda di creare gruppi di gente con lo stesso cognome, per ritrovare radici comuni), ma non gradiva affatto il confronto di idee diametralmente opposte alle proprie.

Insomma, molte persone, restie al confronto e al dibattito, cominciavano a disaffezionarsi allo strumento perché sgradivano la presenza, sulla propria home, di contenuti dissimili dalle proprie convinzioni.

L’algoritmo che ti fa sentire a tuo agio

Zuckerberg, che non è fesso e che spesso ha usato gli strumenti statistici di gradimento del proprio social (abusandone a volte) per capire le tendenze dei propri utenti, ha corretto il tiro creando un algoritmo che si chiama EdgeRank, il quale sceglie i contenuti da far vedere agli utenti in base ai contenuti che essi gradiscono tramite like, commenti e condivisioni.

Oddio, l’algoritmo cattivo è nato “ufficialmente” per gestire l’enorme mole di contenuti pubblicata sul social (quindi sarebbe impossibile mostrare tutto ciò che viene pubblicato dai propri contatti), ma di fatto apre a un nuovo interessante scenario sociale: l’utente viene inserito in una sorta di area di confort, in cui vede solo ed esclusivamente i contenuti di persone con cui interagisce maggiormente e che, quindi, apprezza.

Quello che i cervelloni della Silicon Valley cercano di fare è di trattenere quanto più possibile i propri utenti sul Social, mostrando loro cose che apprezzano. E’ evidente che questo sistema da un lato evita il confronto (o lo scontro) di visioni opposte, ma dall’altro rimbambisce le coscienze perché contribuisce a creare una visione (seppur virtuale) di un mondo conforme alle proprie credenze, illusioni e aspirazioni.

Un modello vincente

E’ inutile dire che il successo di questo “modello” è stato mutuato da altri Social, come Twitter, You Tube e Google Plus ed è stato attenzionato dalla politica globale.

Già, perché Zuckerberg, Larry Page, Sergey Brin e oggi il nuovo CEO Sundar Pichai (vertici di Google) si incontrano regolarmente con la Casa Bianca e persino con il Pentagono per questioni di sicurezza nazionale, ma soprattutto per definire le politiche dell’informazione globale.

Eggià. E’ recente la notizia per cui i vertici di Facebook e di Google hanno siglato un accordo volto a ridurre le bufale e le fake-news su internet. Come? Attraverso potenti algoritmi in grado di riconoscere le notizie false e relegarle nell’oblio della rete (in settima o ottava pagina su Google o in fondo alla home su Facebook), perché al giorno d’oggi le notizie scomode (o false, chissà) non si cancellano più (altrimenti si griderebbe allo scandalo e alla censura) ma semplicemente si relegano in fondo, dove solo gli utenti più certosini arrivano, ma dove la massa di utenti non arriva.

L’Italia finalmente ha una scusa per regolamentare la rete

parlamento

Pare ovvio dire che questo rimedio è stato invocato dalla classe politica e dai media nostrani come un toccasana per l’informazione “vera” (leggasi: di regime), perché, con la scusa della lotta alle bufale e alle fake-news, finalmente si ha una scusa valida per regolamentare un settore delicato e oggetto – da quasi 20 anni ormai – di disegni di legge sempre discussi ma mai approvati.

Ora, invece, la proposta attuale prevede l’istituzione di un’Autority pubblica e indipendente (anche dal sistema giudiziario) che, attraverso le segnalazioni, provveda a far cancellare i contenuti falsi e diffamatori in modo rapido e autonomo, cioè senza il preventivo passaggio da un organo giudiziale che – data la lentezza delle procedure – non permetterebbe di rimuovere in tempo contenuti potenzialmente diffamatori o pericolosi.

Le intenzioni sono corrette, sì, ma senza un contraddittorio saremo certi che i contenuti siano effettivamente bufale, fake-news, diffamazioni o non invece articoli scomodi al sistema di potere? Se è vero che le Autority sono organismi indipendenti, è anche vero che sono – di fatto e immancabilmente – sbilanciati verso chi li ha nominati (o li controlla o semplicemente ne conosce componenti e dinamiche interne…) piuttosto che verso il semplice cittadino.

Del resto in Italia siamo abituati al fatto che ogni legge liberticida è lastricata di buone intenzioni.

Ma questo sistema che si vuole introdurre in Italia, è già di fatto applicato dai gestori dei Social e tutti quanti ne conosciamo l’uso e le finalità: le cosiddette “linee guida”.

Le linee guida per la moderazione e l’arma della segnalazione

segnalazione contenuti social facebook

A chi non è mai capitato di segnalare a Facebook o a Twitter un contenuto ritenuto offensivo? Si tratti di pornografia, odio o violenza, offese o insulti, più o meno a tutti quanti è capitato di segnalare contenuti sgraditi.

E quante volte Facebook ci ha risposto che i contenuti non sono stati rimossi perché non violano le linee guida? Capita soprattutto quando si segnalano gruppi estremisti che inneggiano all’odio razziale, al fascismo o alla violenza.

Rispettano le linee guida, sì.

Ma l’immagine di un quadro, come il Cupido di Caravaggio, viene immediatamente censurata perché non rispetta le linee guida. Ciò accade da anni ed è successo per un quadro di Modigliani, il Nudo di Courbet e per tantissime altre opere d’arte che contengono pure un accenno di seno! E quindi? Che criteri usa Facebook per stabilire cosa è conforme e cosa no? Per non appesantire la lettura, vi rimando a quest’ottima inchiesta del Guardian.

La realtà è che i Social hanno regole tutte loro per decidere cosa è sconveniente e cosa no, regole che – ovviamente – non sono né democratiche né socialmente condivise da chi usufruisce del servizio, semplicemente sono imposte e decise dagli sviluppatori e dai CEO dei Social, in combutta con la politica e, chiaramente, con i finanziatori.

E’ qui che casca l’asino.

Il caso Tartaglia

Ricordate il caso Tartaglia? L’assalitore di Berlusconi? Successe nel 2009. Dopo il fatto, nacquero diversi gruppi su Facebook, che inneggiavano all’assalitore. Nessuna segnalazione fu sufficiente a rimuoverli, ma bastò una telefonata dell’ex Ministro Maroni al CEO di Facebook per far rimuovere i contenuti.

Ecco, questa è la summa della democrazia sui social. E attenzione, badate bene, non è un problema di poco conto. Qualcuno risponderebbe che i vertici dell’Azienda possono decidere liberamente cosa far pubblicare e cosa no, perché in fondo il Social è casa loro e noi siamo “ospiti”. Ma oggi non è più così.

I social sono una cosa pubblica

I Social influenzano pesantemente ogni singolo aspetto della vita di una persona, persino della vita di un’Azienda o di una formazione politica, sono entrati così capillarmente nelle nostre vite e nelle nostre scelte quotidiane da esserne ormai parte integrante, quindi una discussione sulla democratizzazione dei Social sarebbe più che opportuna.

Andrebbe fatta almeno per riflettere su cosa sia davvero preminente per la tenuta sociale e democratica di un Paese, cioè se contano più le Costituzioni e le Leggi o il capriccio di un CEO che vive dall’altra parte del Mondo e decide le sorti di persone, gruppi, partiti o Aziende, così, magari di testa sua oppure influenzato da finanziatori e potenziali avversari delle sopracitate.

Il problema, come vedete, non è banale e comprende molti aspetti politici e giuridici: dalla gestione dei dati personali alla privacy degli utenti, all’educazione dei figli (come crescerà un figlio se sui social ha accesso libero a contenuti di odio e violenza?), alla diffusione di ideologie e concetti distorti, all’alfabetizzazione emotiva e, non ultimo, alla governance del web.

Gli esperimenti social

Social

Una cosa di non poco conto (se non vi bastassero quelle appena raccontate) è che Facebook ci usa costantemente per esperimenti sociali di vario tipo.

Per esempio, nel 2012 ha controllato quanti utenti iniziassero a digitare uno status che superava i 5 caratteri e che non veniva pubblicato entro 10 minuti dalla composizione. Ciò per capire cosa avrebbero scritto e cosa ha spinto gli utenti a non pubblicare il proprio aggiornamento. Ma non solo.

Le foto profilo con l’arcobaleno (per appoggiare i diritti dei gay) o con la bandiera francese (in segno di vicinanza ai francesi, colpiti dagli attacchi terroristici) non sono altro che esperimenti su cavie di laboratorio (cioè gli utenti che l’hanno fatto…) per capire quante persone si adeguano agli atteggiamenti collettivi e, quindi, sono facilmente influenzabili dalla viralità dei contenuti.

Tra l’altro la sempre più invasiva diffusione di contenuti di bassa qualità, per non parlare delle fake news, alza sempre più l’asticella dell’analfabetismo funzionale, che già in Italia ha raggiunto livelli allarmanti.

Gli esperimenti più nascosti riguardano i gusti e le tendenze commerciali

Quindi ogni volta che partecipi a un test tipo “cosa farò da grande” o “quale personaggio storico sarei” o, ancora, “chi ero in una vita precedente”, sappi che Facebook o aziende controllate, stanno studiando i tuoi comportamenti, i tuoi gusti e le tue tendenze. Perché? Per capire chi sei, cosa fai, cosa ti piace, per chi voteresti (esperimento già fatto nel 2010, con successo, e per cui le influenze sono state significative negli USA…), che gusti sessuali hai, come ti poni con la gente, ecc. Tutto nel nome del “sano divertimento social”, che per te è inoffensivo, certo, ma per loro rappresenta una forma di guadagno, di controllo e di influenza, commerciale e soprattutto politica.

Quindi se ti dichiari antisistema, ma poi partecipi a questi test (inconsapevolmente, ovvio), sappi che sei ben integrato nel sistema e ne esci fuori solo in un modo.

Uscite dai social!

facebook social exit

Uscite dai social non è un’esortazione, perché so benissimo che – almeno nel breve e medio periodo – ciò non accadrà e che ormai siamo tutti assuefatti dalla droga sociale e dal nostro alterego virtuale che ci consente di buttare sui Social tutte le nostre inadeguatezze reali e di crearci un personaggio, più o meno credibile e famoso.

Io, per esempio, non ci sto più. Sopravvivo solo su twitter, consapevole che, purtroppo, è un modo per far conoscere i miei quattro articoli ai miei quattro lettori.

Tra l’altro sappiamo tutti benissimo che la fama sui Social non corrisponde né alla fama reale né ad un nostro appagamento spirituale (né tanto meno materiale…), però anche questo fa parte della pia illusione – tutta moderna – che l’apparire virtuale conta più dell’essere reale.

Uscire è l’unico modo per salvarci

Uscite dai Social non è un’esortazione, è solo la lucida consapevolezza che è l’unico modo per salvarci, per smettere di essere cavie, per finirla di essere influenzati, per tornare ad essere persone e non prodotti e, per l’effetto, per ripristinare – questo sì nel lungo periodo – quel minimo di socialità e senso critico che ci consentirà, un giorno, di riprendere in mano le sorti del nostro Paese e di tornare a leggere, informarci e discutere faccia a faccia, magari arrabbiandoci a voce alta (e non pigiando con forza sulla tastiera e reprimendo quella rabbia annebbiata dalla luce del pc o del telefono).

Insomma, di tornare a quella vita reale fatta di scelte consapevoli che i cosiddetti nativi digitali non riescono nemmeno ad immaginare. Ma ciò non vuol dire abbandonare internet, semplicemente vuol dire abbandonare i Social, che di sociale – francamente – hanno un bel nulla e che ci stanno facendo dimenticare – a poco a poco – la vera socialità, quella fatta di sguardi, parole, toni e gesti che rappresentano la vita vera.

Quella vera, non quella che passiamo rincoglioniti davanti ad uno schermo, illudendoci di essere connessi col mondo ma in cui siamo solo prodotti marci, da svendere al primo inserzionista di turno, per venderci cazzate che non ci servono o per estorcerci (volontariamente, ma in modo indotto) voti e consensi, modificando, senza che noi ce ne accorgessimo, pensieri, ragionamenti, sogni e illusioni.

Il tutto mentre clicchiamo sull’ennesimo like o postiamo il buongiorno caffè? a un contatto, amico e compaesano, che non sa nemmeno chi cazzo siamo. Lui non lo sa, ma un tizio, dall’altra parte del Mondo, lo sa benissimo. E si sfrega le mani.

E’ inutile prendersela con gli analfabeti funzionali

analfabeti funzionali

Analfabeti funzionali, che termine curioso, proprio come webeti (coniato – pare – dal giornalista Enrico Mentana).

Una volta, prima dell’avvento dei social e persino di internet, al mio paesello quelli così erano chiamati volgarmente e semplicisticamente scemi, con varianti lessicali dipendenti dagli strati sociali oppure dalla qualità della conversazione quali idioti, fessi, imbecilli, stupidi, stolti (questo è il termine che usavo quando parlavo con persone acculturate), cretini, per poi arrivare ai localismi quali mammallucchi, pampasciuni, cugghiuni, fave o grulli (usato nella mia permanenza in terra toscana).

Oggi però imperversa una moda linguisticamente fatale, che s’insinua – attraverso il web – nei nostri linguaggi e, piano piano, senza farsi accorgere, ne modifica i lemmi, pur nell’immutabilità dei significati.

Ecco che, per esempio, lo storytelling non è altro che il racconto di storie, il selfie è l’autoscatto, lo stepchild adoption è l’adozione del figlio del partner, il brand è il marchio, l’on demand è un servizio a richiesta, ecc.

Quindi un analfabeta funzionale è semplicemente un fesso che però ha studiato quel tanto che basta per saper leggere e scrivere, ma non è in grado di capire il senso di un concetto, anche semplice. In realtà pure molti laureati (e anche masterizzati o dottorati) soffrono di questa malattia culturale e infatti si nota spesso – viaggiando tra i social – che molti titolati si esprimono peggio di come si esprimeva mio nonno con la terza elementare.

Anzi, a pensarci bene, mio nonno aveva un linguaggio forbito e teneva la contabilità del forno in cui lavorava, con la terza elementare. Ma vabbè, so’ dettagli.

analfabeta_funzionale

Dunque, un analfabeta funzionale è un fesso. Chiaro. Alla categoria si possono ricondurre queste figure, così massicciamente presenti sui social:

quello che legge il titolo e commenta

A volte capita che fraintenda anche il senso del titolo, ma siccome i titoli degli articoli di oggi (inclusi quelli – sic! – dei maggiori quotidiani nazionali) sono stupidi, sensazionalistici e acchiappaclick, allora devi essere proprio demente per fraintendere il senso del solo titolo. Quindi sta gente che fa? Commenta solo in base al titolo. E infatti quei mattacchioni dei giornalisti del Secolo XIX l’anno scorso hanno fatto un esperimento sociale, basato proprio su ciò. Leggi e divertiti.

L’odiatore seriale

Premesso che odio i neologisimi angolofoni, quindi col cazzo che userò il termine haters, gli odiatori seriali sono quelli che qualsiasi cosa tu scriva (soprattutto se sei un personaggio famoso o comunque seguito sui social) loro hanno sempre qualcosa da ridire, un po’ di veleno da vomitare, qualche frase offensiva o persino qualche parola pesante o minaccia. Tipo, tu scrivi: “mi è morto il nonno, riposa in pace”. E lui ti risponderà con frasi del tipo: “spero abbia sofferto” o “il tumore se l’è mangiato”, o cose così. L’odiatore è chiaramente un fesso, che siccome non ha altri modi per sfogare le sue innumerevoli frustrazioni, allora lo fa con te e ogni “like” che prende alimenta il suo ego bisunto e lo illude di contare qualcosa nel mondo. In quello virtuale conta solo fino allo scorrimento della timeline, in quello reale purtroppo non conta un cazzo. Ecco perché è sempre immerso sui social. In fondo la sua vita è vuota, quindi i suoi 30 secondi di gloria rappresentano la summa della propria esistenza. Da compatire.

Quello che si fa i cazzi tuoi, sempre e comunque

E’ il tipo che spulcia il tuo profilo, fino ad arrivare a settembre 2007 e che (a volte) gli scappa il dito e mette il like a una foto di giugno del 2009, in cui tu eri sorridente in costume da bagno. E’ quello che quando tu scrivi: “oggi mangio leggero”, ti commenta con un: “hai problemi di fegato”? Ma fatti i cazzi tuoi, no? Spesso questo personaggio è associabile ad un altro normotipo, cioè il maniaco seriale.

Il maniaco seriale

E’ quello che ti chiede l’amicizia. Zero amici in comune, con foto profilo che mostra la tartaruga e il tatuaggio, con occhiali da sole specchiati e montatura verde pisello e un sorriso a 36 denti che simula la sua deficienza. Tu accetti l’amicizia e subito ti arriva un messaggio tipo: “ciao, o visto ke 6 single vuoi scopare?”. Tu gli fai notare che non è il caso, ma lui, nelle settimane a venire, ti mette il “like” a ogni foto che pubblichi, persino a quella della nonna sdentata e sulla sedia a rotelle. E lì capisci che la sua serialità è solo la punta dell’iceberg di un malessere sociale e psichico che potrebbe portare ad epiloghi poco piacevoli.

L’uomo del “meditate gente, meditate”

E’ il mio preferito. Il normotipo di quello che ci mette ore a scrivere un post o un commento e il cui risultato sono solo una serie di frasi stereotipate e ritrite, ma che – in testa sua – solo ricche di cultura e fanno effetto e poi, dopo un’altra ventina di minuti a pensare all’epilogo del suo scritto da nobel, conclude con un “meditate gente, meditate”. Infine, dopo aver premuto “invio”, si gongola pensando alla sua saggezza e attende i like dei suoi simili.

Quello che tu gli parli di fave e ti risponde a piselli

E’ un modo di dire della mia zona, che indica quello che ti risponde a minchia dopo aver iniziato un dialogo con lui. Tu ti sforzi, durante un dialogo tra sordi, nel semplificare il tuo pensiero e fargli capire concetti semplici, ma lui ti risponderà parlando di altro. Non perché voglia distogliere l’attenzione e spostare la conversazione su altro. No. Semplicemente non ha capito e, anziché ammetterlo, ti risponderà a cazzo.

Quello che si mette il like da solo

Nel gergo social, come sappiamo tutti benissimo, un like è un apprezzamento a un contenuto che abbiamo pubblicato. Quindi se lo hai scritto significa che condividi quello che dici, no? Mi pare elementare. Quindi perché, dimmi perché, dammi una spiegazione logica e razionale per cui devi mettere quel like ai tuoi contenuti? Dimmelo, ti prego.

Il condivisore seriale di bufale

La persona più pericolosa nel mondo social. E’ colui che si fa attrarre da titoli quali “Sensazionale scoperta, le scie chimiche fanno venire la cacarella”, oppure “I vaccini faranno diventare tuo figlio autista” o ancora “Putin ce l’ha grosso (condividi e scopri cosa)” o articoli politici come “Renzi ha fatto la cacca e noi gli paghiamo la carta igienica, condividi se sei indignato!”. A nulla vale che l’articolo provenga da un sito che si chiama “ilfattoquotidaino” oppure “la repubblica delle banane”, a nulla valgono le black list dei siti bufalari e complottisti, a nulla vale che tu commenti i suoi post dicendo che sono falsi. Ne uscirà fuori solo un’amara discussione in cui tu sei il complottista e loro i portatori sani di verità assolute. Sono deficienti, punto. Vanno solo derisi e bloccati.

Lo sgrammaticato

In realtà questa categoria racchiude tutte le altre. Per quanto mi riguarda, se uno sbaglia pure un accento, lo depenno dalla mia lista di “amici” e “contatti” (e in effetti mi sento molto solo ultimamente). Per giunta lo sgrammaticato è quello che se tu gli fai notare i suoi errori grammaticali, quasi sempre ti risponderà dicendoti che è più importante quello che vuole dire rispetto a come lo dice. Il cazzo è che non capisci nemmeno ciò che vuole dire e il più delle volte si tratta solo di concetti elementari e imbeccati.

analfabeti_funzionali_italia
wow! L’Italia è al primo posto! Aspetta…per cosa? Ops, per analfabetismo funzionale (cioè per numero di scemi)

Ora facciamo un’ammissione. A chi non è mai capitato di imbattersi in tipi del genere? Alzi la mano chi non ha mai avuto a che fare con un fesso. No, non nella vita reale, sui social.

Lì pascolano liberamente, pare essere il loro habitat naturale e pare che rappresentino la maggioranza.

In effetti lo sono

Statisticamente sarebbero quasi la metà della popolazione italiana. Pare. Qualunque sia il dato statistico, resta il fatto che sono in tanti e che tu, anche se cerchi di mostrarti disponibile, aperto e propenso al dialogo, ne uscirai sempre frustrato e ricolmo di offese gratuite.

Il fatto è che hanno vinto gli analfabeti funzionali

Tu puoi anche usare tutta la logica possibile per inchiodarli alla propria ignoranza. Non ci riuscirai. Puoi pubblicare tutti gli schemi logici di questo mondo per fargli capire che bisogna parlare con consapevolezza. E’ inutile. Puoi anche citare tutte le fonti che dimostrano il contrario di ciò che sostengono. E’ tempo perso.

Gli scemi, finché avranno una connessione internet e un accesso libero e indiscriminato agli strumenti social, ti travolgeranno sempre e comunque con le loro supposizioni, i qualunquismi, le dietrologie da quattro soldi e la grammatica calpestata con violenza e abominio.

Tu potrai condividere quanto vuoi gli articoli che richiamano alla ragione, ma saranno solo compresi e accettati dai tuoi simili, cioè da quelli che vivono nelle riserve della ragione (pochi, insomma), mentre intorno a te imperverserà il diluvio dell’arroganza mista a saccenza e ignoranza. Senti a me, esci dai social e torna a leggere un buon libro. Un libro ti darà cultura (tranne quelli di Saviano e della D’Urso) e ti ricorderà la lingua, i social – invece – ti faranno dimenticare persino le regole basilari della grammatica. Davvero, fidati. Che cazzo fai? Condividi questo post sui social? Allora non ai capito un cazzo!