Riflessioni su Finlandia e felicità

sanna marin finlandia felicità

Davvero la Finlandia è il paese più felice al mondo, ormai da quattro anni, secondo l’ONU? Dalla classifica parrebbe di sì, ma c’è chi non è d’accordo. Ma poi, cos’è la felicità? Considerazioni sparse sul fatto che sì, forse ci sta che in Finlandia si rasenti la felicità e che questo concetto non corrisponda a … Leggi tutto

La lentezza è umana, la frenesia è piccolo borghese

un simbolo della sottomissione della lentezza della civiltà contadina allo sviluppo senza progresso

Giorni addietro ho saputo della scomparsa di Franco Cassano. Chi lo conosce sa quanto questo grande intellettuale, professore di Sociologia all’Università di Bari, ha scritto, ha detto, ha fatto per il Sud. Quanto il suo pensiero, in passato, sia stato l’avanguardia, parlando di pensiero meridiano, mentre il Sud, più del Nord Italia, si ubriacava di … Leggi tutto

La contemplazione dell’artigiano

contemplazione artigiano

Se c’è una figura, oggi, che può fornirci gli strumenti per salvarci dall’alienazione, nevrosi e ansia tipica del vivere contemporaneo, è l’artigiano. L’artigiano era una figura produttiva prevalente fino all’epoca moderna. Anzi, il modo di produzione artigianale era l’unico modo di produzione conosciuto fino all’avvento dell’industria e di quello che Marx chiamerà modo di produzione … Leggi tutto

Elogio dell’Umiltà

povero umiltà

Una breve e inutile poesia dedicata all’umiltà, all’essenza che – per me – è più importante dell’apparenza. Se proprio devo assumere l’ingrato compito del giudice, cosa che oggi sembra piacere ai più, preferisco giudicare un concetto rispetto ad un aspetto ben curato. Perché il primo supera i limiti del tempo, mentre il secondo muore, giorno … Leggi tutto

Il bisogno di narrazione, essere ed esserci

la narrazione di enea e la pietas

Il bisogno di narrazione diventa sempre più una necessità. Che provenga da un giornalista, un vip o da un comune frequentatore dei social, oramai pienamente assorbito in quel mondo virtuale, raccontare la propria realtà soggettiva – sempre più attraverso immagini, battute, meme o qualsivoglia altra rappresentazione semplificata – è un bisogno impellente. Si dice che … Leggi tutto

Eraclito e io

eraclito

Ammetto una cosa. Sono anni che volevo scrivere un racconto di fantasia su un immaginario incontro tra me e il maestro oscuro, Eraclito, della cui figura sono infatuato sin dalle superiori. Nonostante i miei propositi di studiarlo, analizzarlo, approfondirlo e scrivere qualcosa di davvero interessante, sono arrivato ad oggi senza farlo mai davvero. E alla fine, in una mezza giornata, ho scritto di getto questo surreale dialogo, in parte frammentato in parte incompleto dei tanti concetti che avrei voluto esprimere. Ma va bene così. L’importante è fare. Siamo tutti imperfetti e perfettibili e qualunque cosa facciamo sarà sempre soggetta a critica. Ed è con questa convinzione che mi son deciso a farlo. La critica è conflitto e il conflitto è vita, in divenire.

N.B. Le frasi in grassetto, pronunciate da Eraclito nell’immaginario incontro, sono quelle realmente ritrovate nei frammenti.

Buona lettura!

Qualche sera fa ho deciso di fare una passeggiata tra le campagne, per respirare un po’ di aria sana. Mentre giravo tra le fronde degli ulivi, immerso nei pensieri, in lontananza sentivo qualcuno che gemeva e si lamentava. Mi sono avvicinato per vedere chi fosse e se avesse bisogno di aiuto e chi ti trovo? Un tizio con una lunga barba grigia e capelli arruffati che s’inerpicavano lungo una fronte corrucciata e un viso dall’espressione infastidita, probabilmente dalla mia presenza.

Nell’avvicinarmi ulteriormente notavo che il tizio indossava una specie di tunica, ma fatta di juta e sotto, quasi sicuramente, non indossava altro. Era scalzo e aveva i piedi sporchi di terra.

Serve aiuto? Gli dissi mentre mi avvicinavo e facevo luce con la torcia del cellulare.

Tu che procedi nell’ombra, dimmi il tuo nome e fatti riconoscere oppure allontanati da me, cane!

Ou, sta calmo, mi chiamano il barbuto e stavo passeggiando qui in campagna quando ti ho notato e mi chiedevo se hai bisogno d’aiuto

Io mi chiamo Eraclito e mi chiamano lo skoteinòs, l’oscuro nella vostra lingua. Sono nato a Efeso poco prima della Sessantanovesima Olimpiade. Ora a quale Olimpiade stiamo?

Veramente ora è più complicato…staremmo alla cinquantacinquesima edizione, ma vanno distinti i giochi olimpici estivi da quelli invernali. La prossima sarà nel 2020 a Tokyo e sarà l’edizione numero trentadue

Tokyo? E cos’è?

Una città del Giappone

Ah – esclamò sembrando non capirci niente dei nomi che pronunciavo – E poi come fate a stare ad un’edizione delle olimpiadi precedente alla mia nascita?

Che ti devo dire…l’epoca post moderna ha sconvolto un po’ tutto…diciamo che molte cose sono cambiate nel mondo, soprattutto dopo le due guerre mondiali

Bene

Come bene?

Bisogna avere alla mente che il conflitto è comune ad ambo le parti e giustizia e contesa, e tutto accade seguendo la legge della contesa e della necessita

Quindi le guerre sono necessarie?

Certo! Se manca la contesa manca anche l’amore. Se non si conosce la guerra non si potrà conoscere la pace, come senza il male non si potrà conoscere il bene! Anche nel tuo corpo, ora che mi parli, così da quando sei nato, si genera un equilibrio grazie alla contesa. Senza la morte delle tue cellule tu non saresti mai vivo! E anche nella natura tutto avviene secondo contesa: dalla morte sopraggiunge la vita, come dal conflitto tra organismi nascono le piante che danno cibo agli uomini

Qui le piante le abbattono, altro che…

Perché la maggior parte degli uomini è stupida! Di questo lógos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano secondo lo stesso lógos, essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parole ed in opere tali quali sono quelle che io spiego, distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è. Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo

Cosa hai detto?

Non per niente mi chiamano l’oscuro! Tu sei pronto a comprendere il Logos? Oppure sei come l’uomo che nella notte accende a se stesso una luce quando la sua vista è spenta? Così come hai fatto con quello strano marchingegno! però da vivo è a contatto con il morto, da sveglio è a contatto con il dormiente

A proposito di dormire, se vuoi ti accompagno a casa, così ti fai una doccia e ti riposi. Domattina magari, più riposati, continuiamo la conversazione

Doccia? E cos’è?

E’ acqua corrente

Ottimo! Adoro il divenire…Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo

Lo sentivo urlare allegramente sotto la doccia paaaantaaaa reeeeiiiii osssss potamoooooosss, quasi fosse contento che questa invenzione moderna confermasse le sue teorie sul divenire. Ma appena uscito mi si avvicinò e disse:

La morte per le anime è divenire acqua, la morte per l’acqua divenire terra, e dalla terra si genera l’acqua, e dall’acqua l’anima

Che vuol dire?

Che per le anime è diletto diventare umide! L’acqua è morte, mentre la vita è fuoco…il fuoco genera la vita e tende verso il cielo, mentre l’acqua s’infila in ogni anfratto e tende verso il basso. Lo vedi come sgorga in quel buco? – lo disse mostrandomi il piatto della doccia – e chissà dove s’infilerà e quanta umidità creerà lungo il suo passaggio – e questa volta lo disse con un sorrisino sulle labbra mentre guardava il salmastro sulle pareti – perché l’acqua distrugge e rende cretini, il fuoco purifica e rende saggi!

E con quest’amena riflessione ci demmo la buonanotte.

La mattina dopo, appena sveglio, mi si avvicinò mentre ero ancora rimbambito dal sonno e mi disse:

Il sole è nuovo ogni giorno

Come sempre…Gli risposi mentre mi stropicciavo gli occhi

La maggior parte degli uomini non intende tali cose, quanti, in esse s’imbattono, e neppur apprendendole le conoscono, pur se ad essi sembra

E fu così che riprendemmo il discorso lasciato la sera prima.

Cosa vuoi dire?

Se l’uomo non spera l’insperabile non lo troverà perché esso è introvabile ed inaccessibile

Quindi mi stai dicendo che tutto è possibile? Hegel disse qualcosa del genere, ma aggiunse che in realtà tutto è possibile e siccome è tale è inutile ragionarci sopra, è meglio ragionare sul reale e sul razionale, ossia sulla concretizzazione di ciò che nella storia ha un senso.

Interessante questo Hegel, chi è?

E’ un filosofo del Settecento. Ha anche elaborato la metodologia dialettica in cui ogni fase supera l’altra attraverso la conoscenza di sé, quella di fuori di sé e quella che poi si riduce a sé per sé, in estrema sintesi il metodo della tesi, antitesi e sintesi. Ma non ti so dire altro, l’ho studiato alle superiori

Il sapere molte cose non insegna ad avere intelletto: lo avrebbe insegnato ad Esiodo e a Pitagora, e cosi a Senofane e a Ecateo

Grazie per la consolante considerazione. Quindi il sapere è inutile?

Sì! La conoscenza autentica, quella vera, è una riduzione a sintesi, proprio come dice questo Hegel! Per chi ascolta non me, ma il lógos, sapienza è intuire che tutte le cose sono Uno, e l’Uno è tutte le cose

Da queste parti c’è un detto popolare che dice vale cchiui l’esperienza di la scienza

E’ giusto! Il vero saggio è colui che apprende, che conosce la storia e ne fa tesoro, senza l’ardire di sapere tutto, perché l’uomo più saggio davanti al dio sembrerà una scimmia, per saggezza, per avvenenza e per ogni altra cosa!

Quindi credi in Dio?

Non mi pongo il problema. Dio può esistere, come possono esistere anche più dei, che vivono intorno a noi, dentro di noi e fuori di noi

Quindi Dio è anche Natura?

Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi

A proposito di Natura…ti va di fare una passeggiata al mare?

Perché no, andiamo

Giunti sulla spiaggia, dopo una passeggiata in macchina che l’ha emozionato (sarà per via del divenire e del relativo concetto di velocità), si avvicinò sulla battigia e disse:

Il mare è l’acqua più pura e più impura: per i pesci essa è potabile e conserva loro la vita, per gli uomini essa è imbevibile e esiziale

Non ci avevo mai pensato, dissi mentre pensavo a quella volta che, da bambino, stavo quasi per affogare in mare mentre cercavo di imparare a nuotare da solo.

Quindi tutto è relativo e l’unica legge è quella morale, come disse Kant?

Chi è questo stupido di Kant? Gli uomini sono privi d’intendimento e, pur avendo prestato orecchio, assomigliano ai sordi

Insomma, sono stupido come Kant

Come la maggior parte degli uomini

Ci accomodammo in un lido aperto. Seduti al tavolo di un bar, mentre lui si distraeva a guardare le ragazze di passaggio, seminude e sensuali nelle calde giornate di fine maggio, con un codazzo di ragazzotti palestrati a seguito, esclamai:

Non è come ai tuoi tempi, eh? Mentre con il gomito lo picchiettavo e gli facevo l’occhiolino ammiccante

I vizi umani sono governati dall’acqua, mentre il Logos, attraverso il fuoco, distrugge e crea, per poi superare ogni momento di umana imperfezione e tendere alla razionalità assoluta

Quindi non hai in considerazione le passioni umane?

Sì, certo, ma preferisco l’intelletto e la ragione. Del resto i porci godono della melma più che dell’acqua pura

E che vuol dire?

Se la felicità fosse nei piaceri del corpo, diremmo felici i buoi, quando trovano veccie da mangiare

Ma sai…ogni tanto bisogna anche soddisfare i sensi…

Gli occhi e le orecchie sono cattivi testimoni per gli uomini che hanno anime barbare

Mentre per i saggi sono sufficienti?

Gli occhi sono più veritieri delle orecchie, ma la vera bellezza non è visibile agli occhi

Questa l’ho letta nel Piccolo Principe

Cosa?

Che l’Essenziale è invisibile agli occhi

Dice bene il Principe. Ma non puoi affidarti solo ai sensi, altrimenti in te domina l’acqua e la corruzione e non potrai mai comprendere il Logos

I sensi però sono necessari…

Ma non sufficienti! Tu puoi mai toccare l’aria o il cielo? Eppure esistono. Puoi vedere o odorare un’idea? Eppure è presente e condiziona i comportamenti di tantissima gente

Parli delle ideologie?

Sì, anche

Le ideologie pure ormai sono state distrutte. Oggi prevale il consumismo e l’individualismo, due concezioni che tendono all’opportunismo e al materialismo

bisogna seguire ciò che e comune: il Discorso è comune, ma i più vivono come avendo ciascuno una loro mente

a quanto capisco, tu hai criticato l’individualismo già ai tuoi tempi…

Sì, perché sono tutti individualisti quelli che non seguono il Logos, la legge della physis. Del resto chi vuole che la sua parola abbia senso, deve farsi forte di ciò che a tutti è comune e ha senso, come la città si fa forte della legge, e assai più che la città: le leggi umane traggono tutte nutrimento da un’unica legge che è la legge divina, e tanto può quanto vuole e a ogni cosa e bastante e a tutte sopravanza

Quindi mi stai dicendo che le leggi umane non coincidono con Dike? Con la giustizia?

Esatto. Il nomos è una mimesis, una imitazione, e quando è sorretta da hubris, diventa ingiusto

Qui da noi ci sono tanti uomini di potere che seguono hubris e non Dike

Perché sono stupidi! E presto cadranno. Ti racconto un fatto. Gli Efesii dovrebbero impiccarsi tutti, gli adulti, e lasciare la città ai fanciulli, perché essi cacciarono via Ermodoro, tra di loro il più utile alla città, e dissero: “Tra di noi non ci sia uno migliore. O se c’è, lo sia altrove e tra altri”

In pratica hanno cacciato Ermodoro perché era più bravo di loro e non sopportavano di essere mediocri al suo confronto?

Sì, e quindi, invece di prenderlo ad esempio e migliorarsi, hanno cacciato il migliore. Al governo della Polis ci vanno solo i mediocri, ma capaci di incantare le masse. E se c’è qualcuno migliore di loro che osa criticarli, lo imbavagliano

Insomma, mi stai parlando della censura…

La censura è l’arma dei mediocri! Quando vedi un politico che scappa da un confronto, sta scappando da Logos, perché lo detesta ed è incapace di affrontarlo. Quando invece vedi due o più uomini che discutono, anche con toni forti, ma confrontano le loro idee, stanno cercando Logos e lo troveranno. Perché dalla discussione nasce la sintesi, che supera le contraddizioni passate e crea i presupposti per un avvenire migliore

Insomma, stai citando Hegel e Marx

E ora chi è questo Marx?

E’ uno che, prendendo spunto da Hegel sui processi dialettici, ha teorizzato una società in cui tutti sono uguali e i mezzi di produzione sono in mano ai molti e non ai pochi e questi molti fanno l’interesse di tutti e non dei pochi. Tutto ciò, però, si basa sul conflitto tra le classi, dove – secondo un certo processo storico – la classe degli sfruttati prevarrà sugli sfruttatori e redistribuirà le ricchezze a tutti, che oggi sono in mano a pochi

E questa bella cosa è avvenuta?

No, perché è stato annientato il conflitto

Male! Congiungimenti sono intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l’uno dall’uno tutte le cose

Tu credi in una società comunista?

Se si basa su un conflitto permanente, perché no

Sembra di sentire Trockij

Chi?

No, niente…uno che parlava di rivoluzione permanente

Interessante questo Trockij, aveva ragione! Solo con un perenne conflitto sociale si possono creare i presupposti per quella società comunista di cui parli. Ma se questo processo non è avvenuto ancora vuol dire che ogni essere che cammina al pascolo è condotto dalla frusta

In pratica siamo servi

Non solo, siete pure stupidi. Vi fate illudere dai fattucchieri che non vi raccontano la verità, ma la percezione di essa, giusto per avere consenso e fare quello che gli pare. Siete stupidi che si fanno infinocchiare dai bambini. Esattamente come Omero il quale fu il più sapiente tra tutti gli Elleni. Infatti dei bambini che uccidevano pidocchi lo trassero in inganno dicendogli: ciò che abbiamo visto e abbiamo preso lo lasciamo, ciò che non abbiamo visto né preso lo portiamo

E come se ne esce?

Pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi

Insomma, lo dicevo, siamo schiavi!

Schiavi e stupidi. Ma il tuo Marx l’ha detto come si esce…

con la lotta di classe, già…

Esatto, il conflitto. E’ da lì che nasce tutto. Se non c’è conflitto non c’è vita, non ci sarà futuro per la vostra civiltà e mi sa che la vostra civiltà volge al termine

Nemmeno il tempo di rispondere che lo vidi alzarsi, recarsi verso il mare, entrare in acqua e, piano piano, perdersi in mezzo alle onde. Di sicuro non si bagnerà due volte nella stessa acqua.

E con questa riflessione andai alla cassa, pagai e me ne tornai fischiettando fischia il vento verso la macchina.

Neet e assenza di conflitto: ecco perché il fenomeno è così ampio

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L’ennesimo rapporto di Eurostat sui c.d. Neet (o néné, giovani che non studiano né lavorano), diffuso oggi, evidenzia come, anche nel 2017, la quota si attesta al 25,7%, ossia un giovane su quattro, tra i 18 e i 24 anni, non ha un lavoro né è all’interno di un percorso di studi. Su quest’aspetto siamo i primi in Europa, seguiti da Cipro (22,7%), Grecia (21,4%), Croazia (20,2%), Romania (19,3%), Bulgaria (18,6%), Spagna (17,1%), Francia (15,6%), Slovacchia (15,3%), mentre la percentuale più bassa di Neet è in Slovenia, Austria, Lussemburgo, Svezia (8% circa) e Paesi Bassi (5,3%).

I dati di per sé parlerebbero chiaro, ossia che la percentuale di Neet è proporzionata alla percentuale di disoccupazione di una Nazione e quindi la risposta parrebbe scontata: dove manca il lavoro ci sono più Neet. Ma la risposta è davvero così semplice? Se andassimo ad analizzare i dati della presenza di Neet a livello globale ci stupiremmo non poco nello scoprire che negli USA la percentuale di Neet si aggira intorno al 15% e che in Giappone, terra di tecnologie e di forte propensione al lavoro, la percentuale varia dal 20 al 25% (dati disgregati, in base alla differenza di indicatori di analisi utilizzati). Dunque la presenza di una percentuale più o meno alta di disoccupazione è indicativa, ma non è risolutiva. Ad ogni modo va prima sgomberato il campo da un equivoco che spesso aleggia tra quelli che parlano di siffatti argomenti.

Non è questione di volontà

Spesso si dà la colpa ai giovani e si dice che non hanno stimoli o che quelli che vivono al Sud (dove i tassi di disoccupazione giovanile sono i più alti in Italia) non hanno voglia di lavorare (parole dell’intellettuale Flavio Briatore). Ma non è una questione di volontà. Se affrontassimo l’argomento restando nell’alveo della volontà (e quindi di una rappresentazione parziale della realtà) non riusciremmo mai a darci una risposta e a capire perché questi giovani hanno smesso di studiare e di lavorare. Insomma, dire che non vogliono lavorare o studiare è una semplificazione talmente imbarazzante da risultare persino dannosa, in quanto ci allontaneremmo dal problema e lo risolveremmo con una semplicistica formula di rito, tanto inutile quanto priva di strumenti atti a comprenderne la portata del problema.
Direi piuttosto che i ragazzi vorrebbero lavorare. I ragazzi vorrebbero studiare. Vorrebbero, razionalmente e consapevolmente, realizzare un progetto di vita. Ma non possono.

La mancanza di conflitto e l’incapacità di elaborare la sintesi

Non voglio scomodare un profondo pensatore come Hegel, ma a sto giro ci sta. Hegel, nel suo tentativo di dare sistematicità al pensiero filosofico, individua tre passaggi fondamentali, che sono: l’essere in sé, l’essere fuori di sé e l’essere in sé e per sé, tre concetti che – sinteticamente, stando al pensiero hegeliano – possiamo ridurre in tesi, antitesi e sintesi, ossia tre passaggi della dialettica, che Hegel tenta di universalizzare per spiegare la fenomenologia della realtà. Vabbuò, qualche filosofo storcerà il naso nel leggere questa riduzione del pensiero hegeliano, ma a me serve come strumento per spiegare una cosa. Ma prima vorrei farvi ascoltare un passaggio di un’intervista a Mentana sulla disoccupazione giovanile:

Mentana, forse consapevolmente, forse no, mette in risalto un aspetto essenziale, che si ritrova anche nel pensiero hegeliano e che spiega meglio il fenomeno dei neet: “le generazioni passate, quando si trovavano di fronte a un’ingiustizia, protestavano, mentre oggi c’è un’assuefazione, che nasce proprio da una parte dell’ingiustizia”. La protesta, nel vocabolario hegeliano, era la parte dell’antitesi, ossia della negazione dell’esistente.

Dunque con la critica all’attuale si alimentava la protesta (consapevole) e si procedeva verso una negazione che avrebbe portato alla sintesi.

Più o meno la stessa cosa fu teorizzata da Marx, ma non l’ho citato un po’ perché sennò sarei tacciato di comunismo (elemento ormai antistorico, anche se sempre attuale, ma che sopravvive in modo regresso a mò di soprammobile da cacciare ogni volta che si vuol far finire una conversazione in malomodo) un po’ perché Marx ha storicizzato il suo pensiero e ha eliminato l’universalizzazione del pensiero hegeliano.

Insomma, quello che semplicemente voglio dire è che, rispetto ai nostri genitori, che hanno concretizzato il secondo aspetto della struttura hegeliana (l’essere fuori di sé), noi ne siamo rimasti fuori. E quindi siamo rimasti fregati dalla storia.

Cos’è successo rispetto ad allora?

Mentre i nostri genitori scendevano in piazza nel ’68 o nel ’78, nasceva la società dei consumi, che li avrebbe ricondotti nei ranghi, promettendo loro un benessere che si sarebbe poi sviluppato – e concretizzato – nei decenni a venire. Ma quel benessere non sarebbe durato a lungo e oggi ne vediamo le prime conseguenze. Peccato che i nostri genitori non l’abbiano ancora capito e si prodigano nell’immaginare per noi un futuro antistorico e prettamente bucolico. Un futuro che si trova solo nella narrativa sociale fino a un ventennio fa.
Loro ci hanno viziati, ci hanno narrato un futuro in giacca e cravatta o in tailleur e noi ci abbiamo creduto. Ci hanno coccolati, spingendoci a credere che fatica e gavetta sono concetti da abiurare e che sono inutili, perché il successo non si raggiunge in salita, ma in discesa.
E dunque, in poche parole, hanno sconfessato il secondo – più importante – processo di crescita e di evoluzione: la negazione, il conflitto. Senza il conflitto, la negazione, non si arriva alla sintesi e si resta in una sorta di limbo costituito dall’essere in sé, però perenne. Per arrivare all’essere in sé per sé (cioè: trovare un lavoro, terminare un percorso di studi, svilupparsi emotivamente e lavorativamente) occorre per forza passare dal conflitto. Ma quando una società edonistica e una famiglia che assimila tali valori salta questo fondamentale passaggio, qual è la conseguenza?

So che questo video non spiega molto ciò che ho appena detto, ma preso con le dovute pinzette, è nettamente esemplificativo e pragmaticamente risolutivo.

La depressione è una malattia?

depressione

Giorni fa sulla Stampa è stato pubblicato un articolo (subito rimosso) dal titolo: “depresso un italiano su 5 e le cure fai da te sono un’emergenza”, in cui, secondo uno studio condotto congiuntamente dalla AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) e dal CNR di Pisa, circa undici milioni di italiani soffrono di depressione e prendono psicofarmaci. … Leggi tutto

Il concetto di Cultura

Cultura

Cos’è la cultura? Quante definizioni ha? A cosa ci serve? Perché è importante riprendere la discussione sul tema? Con questo articolo cerco di dare tutte le definizioni possibili del concetto di “cultura” e di focalizzare l’attenzione su un tema di fondamentale importanza nei decenni a venire.

Il termine cultura ha trovato, nel corso della storia, una sovrabbondanza di significati tanto da risultare quasi impossibile una classificazione. Abraham Moles, nel 1967, faceva riferimento all’esistenza di più di 250 definizioni di cultura. Gli antropologi Kroeber e Kluckhohn tentarono di impostare una definizione di cultura di validità universale, ma registrarono circa 150 concezioni differenti.
Solo per fare qualche esempio, al giorno d’oggi si può utilizzare il termine in questione per una svariata cerchia di contesti:

”Ci sono enormi differenze culturali tra Oriente e Occidente”
”Umberto Eco è una persona di grande cultura”
”La musica pop è usata dai gruppi giovanili per affermare la loro identità culturale”
”La cultura di massa ha un effetto di omologazione”
”Le telenovela sono espressione della cultura sudamericana”
”La cucina italiana è parte della tradizione culturale del nostro Paese”
”Il dialogo tra le culture è necessario, ma difficile”

Ecco che possiamo trovare, in questi esempi, diverse concezioni di cultura. A grandi linee si può affermare che esiste un significato quantitativo (ossia il complesso di nozioni e conoscenze che un individuo possiede) o un significato sociologico, per cui in un gruppo sociale assumono una notevole importanza le rappresentazioni collettive, cioè gli insiemi di norme e credenze che il gruppo possiede. Esiste una concezione antropologica (che, del resto, ha fortemente influenzato quella sociologica), per cui la cultura rappresenta un insieme di norme, di credenze, di abitudini quotidiane più o meno accettati da tutti in una determinata comunità.
Ma procediamo con ordine. Per chiarire la portata di tali significati occorre soffermarsi sulle concezioni di cultura che, dalla civiltà Greca e Latina ad oggi, hanno caratterizzato tale termine, rendendolo un concetto diversamente interpretabile e altamente indeterminato, considerando lo sviluppo che tale termine ha avuto nelle diverse epoche storiche.

Cultura come processo di coltivazione

Il termine, di origine latina, deriva dal verbo colere, che significa “coltivare” e veniva dunque impiegato per indicare qualsiasi manipolazione della natura ad opera dell’uomo. Ma anche oggi si intende come l’insieme dei sensi operativi, legati al lavoro agricolo ed ai suoi risultati o all’allevamento di microrganismi (la cultura o coltura dei virus, della vite, dell’olivo, etc.).

I latini utilizzavano questo termine, però, non solo per indicare tale rapporto tra la natura e l’uomo, ma anche, insieme al termine anima, per indicare il processo di coltivazione, ossia di educazione, della propria anima, così come si coltiva la terra, quindi la cultura indica un processo di coltivazione dell’uomo attraverso tutta una serie di procedimenti e di processi di apprendimento (cultura animi). Inoltre l’aggettivo cultus (l’etimologia è analoga) stava a designare tutto ciò che si rivela curato, lavorato, coltivato e s’oppone quindi agli aggettivi silvester o neglectus. Da qui il termine culto, che viene utilizzato per tutte quelle situazioni che richiedono una cura assidua, una cura verso gli dei o una cura verso l’essere umano.

In tale prospettiva, il concetto di cultura è apparentato a quello di coltivazione, ossia ad un intervento mirante a sviluppare qualcosa che se non fosse curato, perirebbe o non nascerebbe affatto. Cultura, insomma, come agri-coltura o, anche, come cultura fisica o culturismo, che denota una pratica ginnica tendente a rafforzare il volume e la potenza della muscolatura.

Il termine cultura, nel significato appena illustrato, nonostante sia stato, in un certo senso, superato dalle interpretazioni successive, possiede una intrinseca caratteristica che lo rende attuale e rappresenta comunque il punto di partenza per una comprensione complessiva del termine. Sia perché, ad ogni modo, indica sempre un processo di crescita, sia perché dalla concezione di cultura come cultus (ossia “coltivazione degli esseri umani” o meglio, la loro educazione) deriva il valore di cultura nel suo senso moderno: il complesso di conoscenze (tradizioni e saperi) che ogni popolo considera fondamentali e degni di essere trasmessi alle generazioni successive.

E’ interessante notare che Jesús Prieto de Pedro, nella ricostruzione definitoria del termine cultura, segnala come il significato moderno del lemma sia acquisizione linguistica relativamente recente, infatti nel Dictionnaire Universel di Antoine Futière del 1690, il termine viene usato nel suo senso originario.

Cultura come attività intellettuale superiore

Cultura può essere interpretata in una diversa accezione: “complesso delle conoscenze intellettuali e delle nozioni che contribuisce alla formazione della personalità”. In altre parole indica l’insieme dei sensi intellettualistici, valutativi, per cui cultura connota attività per così dire superiori, intellettualmente qualificate, non esecutive, ed i prodotti di esse. Ma occorre ancora distinguere, all’interno di questa definizione, tra cultura come giudizio di valore e cultura come concetto descrittivo. Nella prima definizione cultura si contrappone ad ignoranza; in un altro senso essa indica “l’insieme delle cognizioni, e delle disposizioni così mentali come sociali, al cui acquisto è necessaria, quantunque non sufficiente, una vasta e varia lettura”.

La seconda definizione apre, per così dire, la strada verso la nozione antropologica del termine. Ossia la cultura identifica un ordine di fenomeni esclusivamente umani (gli animali non hanno in senso proprio una cultura, ma semmai un modo di vita) a carattere sociale.

Il termine cultura come giudizio di valore indica lo specifico patrimonio di conoscenze di cui una persona si è impadronita (è uno dei significati correnti del termine cultura) e può essere accostato al termine greco paidéia e al latino humanitas: il primo indicava il modello educativo in vigore nell’Atene classica e prevedeva che l’istruzione dei giovani si articolasse secondo due rami paralleli: la paideia fisica, comprendente la cura del corpo e il suo rafforzamento, e la paideia psichica, volta a garantire una socializzazione armonica dell’individuo nella polis, ossia all’interiorizzazione di quei valori universali che costituivano l’ethos del popolo. Mentre con il secondo si intende una concezione etica basata sull’ideale di un’umanità positiva, fiduciosa nelle proprie capacità, sensibile e attenta ai valori interpersonali e ai sentimenti. Ciò che conta è che questo ideale è valido per tutti gli uomini, senza distinzioni etniche, sessuali o sociali. Terenzio scriveva appunto: “homo sum: humani nihil a me alienum puto”, ovvero: “sono un uomo, e perciò nulla di ciò che è umano mi è estraneo”.

Queste nozioni arrivarono sino al medioevo dove, seppur mutate le condizioni a causa dell’affermarsi del modello cristiano, resistettero le concezioni di cultura come realizzazione dell’umanità degli uomini liberi. Un passo di un’opera di dante può rappresentare la concezione della cultura in quel tempo:

“(…) l’operazione specifica del genere umano preso nella sua totalità è quella di attuare sempre tutta la potenza dell’intelletto possibile, prima mediante l’attività speculativa e poi, in forza e per estensione di questa, mediante l’attività pratica. Siccome nell’uomo singolo avviene che, vivendo in condizioni di calma e di tranquillità, si perfezioni in saggezza e in sapienza, è chiaro che — secondo il detto che ciò che vale per la parte vale per il tutto — anche il genere umano, vivendo nella quiete, cioè nella tranquillità della pace, può compiere, nel modo più libero e facile, la sua attività specifica che è quasi divina, secondo il detto: “Lo facesti di poco inferiore agli angeli”.

Nonostante il Poeta auspicasse una pace universale, dalle parole si può dedurre che “quiete e tranquillità della pace” sono caratteristiche che solo gli uomini liberi potevano possedere e che cultura indica sempre uno sviluppo delle qualità interiori umane.
Nel ‘400 cultura si identifica ancora con il termine humanitas, mentre nel sei-settecento il termine viene ripreso da filosofi come Bacone, Pufendorf e poi Leibniz e Kant allo scopo di designare il processo di formazione della personalità umana e la sua capacità di progredire.

Gli sviluppi successivi

L’affermarsi dell’Illuminismo ha portato – com’è noto – ad una rottura politico-sociale con il passato, esaltando le idee laiche e principi razionali e scientifici e coinvolgendo, nel profondo mutamento ideologico del tempo, anche il concetto di cultura: la ragione è lo strumento dell’educazione, e poiché ogni uomo è dotato di ragione la cultura può divenire patrimonio universale anziché riservato ai dotti.

Ma fu in questo momento storico (a cavallo tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento) che la concezione francese di cultura trovò un destino diverso da quella tedesca. La Germania stava attraversando un forte mutamento culturale che l’avrebbe portata, successivamente, dall’illuminismo al clima intellettuale romantico. Fu in questo momento che avvenne il trapasso dal significato “soggettivo” al significato “oggettivo” del termine cultura, ossia al passaggio da una determinazione in termini individuali a una determinazione in termini storico-sociali della cultura. Il primo esempio di impiego su larga scala del concetto di cultura in questa nuova accezione si ritrova nelle opere di J.G. Herder, in cui pone una forte contrapposizione tra cultura e civiltà.

Cultura e Civiltà

Fino all’illuminismo la cultura è legata alle facoltà superiori dell’uomo, alla sua natura razionale e morale, e quindi alla cultura può accedere in fondo soltanto una élite, una élite sociale o meglio una élite di tipo intellettuale.

Mentre Civiltà (dal latino civilitas, termine che si introduce nel latino abbastanza tardi, nel I secolo d.C., come traduzione del greco πολιτεία [politéia]) indica l’appartenenza alla civitas, ossia alla struttura politica della città, come anche ai modi di vita che sono propri della città, ai modi di vita urbani in contrapposizione ai modi di vita della popolazione rurale. Il termine è stato utilizzato spesso dall’illuminismo francese, infatti il concetto di civilisation era servito soprattutto a designare un livello di vita associata che si colloca al di là dell’esistenza asociale dei popoli selvaggi e dell’esistenza sociale, ma ancor priva di un’organizzazione razionale, dei popoli barbari. In questo modo la tripartizione tra stato selvaggio, barbarie e civiltà veniva ad indicare le grandi fasi successive dello sviluppo dell’umanità nel suo avanzamento verso uno stato finale caratterizzato dall’acquisizione dell’autonomia razionale da parte dell’uomo e dalla diffusione crescente dei “lumi”. Infatti l’illuminismo critica aspramente l’ideale aristocratico di cultura. Nel francese del sec. XVIII, però, il termine civilisation, che indicava nel secolo precedente il “buon gusto” e le “buone maniere”, acquistò il significato illuministico di cultura come potenziale patrimonio di tutta l’umanità, e quindi in lingua francese l’opposizione ideologica tra cultura illuministica e cultura aristocratico–formale non si tradusse nella contrapposizione di due parole.

Inoltre Cultura e civiltà hanno avuto, nel panorama intellettuale del Novecento, un destino assai diseguale. Il concetto di civiltà si è dimostrato più tenacemente refrattario a una definizione scientifica. Più che un concetto suscettibile di essere formulato in regole precise, la civiltà si è rivelata un’idea, talvolta addirittura un modello ideale. Anche lasciando da parte troppo scoperte esaltazioni di stampo etnocentrico della civiltà contro la barbarie, o della civiltà occidentale nei confronti di altre civiltà, le varie teorie storico-filosofiche della civiltà son servite, di solito, a discriminare in termini di valore le diverse forme di organizzazione sociale, cioè ad individuare nello sviluppo dell’umanità un livello di vita considerato “superiore”.

Il concetto di cultura è stato invece oggetto di una lunga elaborazione che ha fatto di esso un concetto-chiave delle scienze sociali. Il romanticismo tedesco ha dato il via, in un certo senso, allo studio antropologico del termine cultura. Gustav Friedrich Klemm, con le sue opere inserite nel filone che risale a Herder e in un clima in cui il Volksgeist, ossia la volontà di una nazione che rappresentava la legge fondamentale del suo sviluppo sociale, aveva alimentato una simile concezione della cultura, riconosceva l’importanza del patrimonio culturale di ogni popolo.
Anche se l’uso del termine cultura come attività intellettuale superiore è tuttora largamente diffuso, il concetto di cultura ha assunto per altro verso una veste scientifica, conquistando un posto di rilievo non solo nella storiografia o nella discussione filosofica, ma anche in discipline come l’antropologia, la sociologia, la psicanalisi e l’etologia.

Il contributo di Sigmund Freud ed altri illustri autori sia di formazione psicologica che sociologica, lo svilupparsi della riflessione filosofica tedesca, l’ascesa della scienza antropologica e l’avanzare di altre scienze vicine ad essa, come l’etnologia e la demologia, lo studio sul campo, come pratica “applicata” della scienza antropologica, il diverso destino che hanno avuto i termini cultura e civiltà, hanno contribuito al superamento (seppur non totale) del termine cultura come attività intellettuale superiore e all’introduzione di un nuovo e diverso concetto: la cultura è l’insieme delle conoscenze di un soggetto in quanto membro di una società.

La nozione antropologica di Cultura

In realtà non esiste una nozione antropologica di cultura. Ne esistono molteplici.

Nell’ultimo periodo dell’Ottocento si assiste a due fenomeni: l’antropologia si costituisce come scienza autonoma e inizia gli studi sull’origine e l’evoluzione della cultura.

Secondo la primissima teoria c.d. evoluzionistica, tutti i popoli hanno percorso, e sono destinati a percorrere, le medesime tappe: ciò che li differenzia è la durata della permanenza in ognuna di esse, la quale fornisce la chiave per comprendere il motivo del loro diverso grado di sviluppo culturale. Questa impostazione ha consentito, tra l’altro, di istituire uno stretto parallelismo tra la società antica e la struttura sociale dei popoli ancora allo stato primitivo, ritrovando in questi ultimi l’equivalente del passato preistorico del mondo europeo. Tutto ciò adottando il metodo comparativo come strumento di ricostruzione delle varie fasi del processo evolutivo della cultura.

Questa impostazione è stata oggetto di critica da parte della scienza antropologica successiva, che intende dimostrare l’infondatezza del presupposto di una evoluzione unilaterale.

Boas, nella sua opera The mind of primitive man (1911), sostiene che la cultura è oggetto d’apprendimento.

“La cultura – a parere dell’Autore – non è determinata dall’ambiente geografico, tant’è vero che forme di cultura differenti possono sorgere in ambienti simili e forme di cultura analoghe si presentano in ambienti quanto mai diversi”.

Da una diversa prospettiva parte, invece, Freud per delineare i tratti caratteristici della cultura. A parere dell’autore la cultura ha basi psichiche, per cui all’origine della cultura si trova una situazione traumatica corrispondente a quella che genera la nevrosi.

Ma le teorie antropologiche sulla cultura che più hanno avuto credito nel corso della storia contemporanea sono quelle che vedono la cultura non come un fenomeno evolutivo (o di origine psichica), bensì come fenomeni culturali individuali, ognuno dei quali nasce autonomamente e ha tratti di differenza o di analogia con le altre culture.

All’affermazione dell’autonomia della cultura si accompagna, in The mind of primitive man di Boas la considerazione delle varie culture come strutture sorte storicamente e comprensibili soltanto in base al loro particolare processo storico. Di conseguenza, l’antropologia assume a proprio oggetto non già la cultura, bensì le singole culture e i loro rapporti, lo sviluppo di ogni singola cultura e il complesso di relazioni che la lega con un determinato ambiente e con altre culture.

Il riconoscimento della pluralità delle culture rivela anche implicazioni importanti di ordine filosofico: il rifiuto della pretesa di ricondurre le diversità culturali a una matrice unitaria, la negazione dell’esistenza di valori assoluti comuni a tutte le culture, il rifiuto dell’etnocentrismo in quanto attribuzione illegittima di un valore privilegiato a una cultura particolare.

Tutto ciò ha rappresentato la base del relativismo culturale, inteso come affermazione dell’eguaglianza assiologica della varie culture e, al limite, della loro incomparabilità. W.G. Summer e A. Keller considerano lo sviluppo culturale come un processo di adattamento dei diversi gruppi sociali al loro ambiente specifico, che conduce ad adottare certe forme di comportamento e a escluderne altre, dando così luogo a una varietà di costumi tra loro irriducibili e parimenti legittimi. M.J. Herskovits, in chiave polemica afferma che tra le diverse culture non si possono stabilire giudizi di superiorità o di inferiorità tra le loro manifestazioni.

Questi ultimi autori appartengono ad un orientamento che possiede una nozione diversa e più complessa di antropologia culturale; il distacco dall’antropologia evoluzionistica e le diverse teorie che si sono succedute nel tempo hanno contribuito ad una nuova interpretazione di cultura. Si pensi all’importante contributo di Claude Lévi-Strauss, il quale ha applicato le teorie strutturalistiche alla scienza antropologica. Nella pratica dello strutturalismo, così come l’intende Lévi-Strauss, possono essere isolati due principi fondamentali:

  1. Una struttura che fa parte del reale, ma non delle relazioni visibili. Ogni realtà etnica è quindi formata da strutture che bisogna ben distinguere dalle singole relazioni sociali osservabili empiricamente; tali strutture elementari costituiscono un livello reale ma non percepibile direttamente.
  2. Lo studio scientifico delle realtà etniche deve essere diretto alla determinazione di queste strutture e al loro funzionamento: è lo studio sincronico di esse che rende conto dello sviluppo storico della società e non l’esame diacronico del loro sviluppo a offrire una spiegazione delle strutture presenti nelle realtà etniche. In poche parole Strauss adotta un sistema schematico per studiare le varie culture, dividendo in un asse immaginario le popolazioni secondo certe caratteristiche (uomini/donne; giovani/anziani; etc.) e, sulla base di queste “strutture”, analizza lo sviluppo della cultura.

Oggi la scienza antropologica è pressoché concorde nel considerare la cultura come un concetto relativo, come un complesso di conoscenze e di valori che ogni gruppo sociale, grande o piccolo, possiede e trasmette alle generazioni future. La nozione di cultura è legata infatti alla memoria: la cultura non è innata, ma continua a riprodursi attraverso la trasmissione dei c.d. folkways, che ne assicurano la sopravvivenza nonostante la transitorietà degli individui. Questo processo viene definito inculturazione (tipica prassi della Chiesa cattolica nei luoghi in cui esprime la propria evangelizzazione), e presenta spiccate analogie con quello di coltivazione il quale copre, come già abbiamo visto, uno dei livelli semantici della nozione di cultura.

A tal proposito occorre soffermarsi un attimo sul concetto di memoria. Il sociologo Franco Cassano, riprendendo alcuni concetti espressi da Agnes Heller, sostiene, all’interno di un’ampia riflessione sull’assolutizzazione della velocità nella società contemporanea, che l’accelerazione

“crea una perdita di sapere intergenerazionale e di apertura alla complessità del mondo che da questa menomazione deriva. La centralità dell’utile erode la memoria, perché l’interesse ha bisogno solo di una memoria a breve termine, non di una a lungo termine, e tanto meno di una memoria culturale; esso non crede nella ripetizione, è anticerimoniale. Laddove tutto può essere continuamente rinegoziato non c’è più spazio per la memoria, che diventa un impedimento, un ingombro, un limite alla libertà di movimento, che ha bisogno, se vuole essere assoluta, di dissolvere come un vincolo arcaico tutti i “cum”, sia nel tempo che nello spazio”.

La memoria, dunque, come sguardo critico verso il presente, mediante le esperienze del passato, ma non solo.

Memoria anche come un processo “metabolico” di trasformazione, in continuo divenire, attraverso il quale creare una identità collettiva in grado di rinnovarsi, senza perdere il contatto con la propria storia. l’identità può essere pensata come una “costruzione simbolica che per sussistere deve fondarsi principalmente sulla memoria” (U. Fabietti e V. Matera), perché identità e memoria sono intrinsecamente legate e si nutrono vicendevolmente in una catena infinita.

In conclusione

Quello di cultura è un concetto poliforme, racchiude numerosi significati e coinvolge diverse discipline. Dopo decenni di cultura di Stato, che ha imposto il concetto di cultura quale nozionismo stantio e volto a costituire nuove e inconsapevoli leve lavorative, e dopo la continua e costante disgregazione delle espressioni culturali individuali e collettive, soprattutto ad opera della cultura capitalistica, che ha fatto regredire le espressioni del folklore, ampiamente studiate da Gramsci, nei decenni a venire la discussione intorno alle espressioni culturali rappresenterà il primo e fondamentale tema volto al ripristino della coesione sociale e del rifondamento nazionale ed europeo.

E’ giocoforza prevedere che la tenuta socio-economica attuale non è più sostenibile e che presto occorrerà riprendere la discussione sulla Cultura come volano di ripristino e sviluppo di una società ormai allo sbando. Mi auguro che questo contributo possa in qualche modo servire a porre in essere una riflessione sul concetto di cultura e, soprattutto, sulla distinzione tra “cultura di Stato” e “Stato culturale”, una distinzione macroscopica, che rappresenta la differenza tra regime e autodeterminazione, soprattutto in una Nazione come l’Italia, in cui la Cultura – in passato – ha rappresentato un faro per la civilizzazione dei popoli europei e che oggi rappresenta una colonia di popoli che, fino a pochi secoli fa, erano considerati barbari e incolti.