Calabria terra mia… secondo me

Bronzi di Riace al museo archeologico di Reggio Calabria

Il corto di Gabriele Muccino, Calabria terra mia, presentato al Festival del Cinema di Roma, interpretato da Raoul Bova e dalla compagna Rocío Muñoz Morales, ha fatto infuriare i calabresi, per un’idea troppo stereotipata della Calabria. Il corto, di soli 6 minuti (non 8, gli altri 2 sono occupati dai titoli di coda), costato 1,7 … Leggi tutto

Cannabis light, giullari e mafiosi

Il Ministro dell’Interno, che tante volte appare come un giullare di corte, ha deciso in modo autoritario di far chiudere la fiera della cannabis a Torino e, tramite una circolare indirizzata ai questori, ha fatto chiudere due negozi in provincia di Macerata, annunciando di estendere la circolare a tutta Italia. Insomma, il Salvini giullare si … Leggi tutto

Contributo per una nuova riforma agraria

nuova riforma agraria

Questo breve scritto è da considerarsi una bozza di un percorso verso una riforma agraria che auspico possa diventare più ampio e articolato, con il passare del tempo e con gli approfondimenti del caso, riguardo numerose questioni che vanno lette nel loro insieme, tra cui: la questione agraria, la questione meridionale, il rapporto tra Settentrione … Leggi tutto

Roma: era mafia o non era mafia?

mafia capitale sentenza

Ieri, 20 luglio, nell’aula bunker di Rebibbia, il presidente della X sezione penale del Tribunale di Roma Rosaria Ianniello, dopo 3 ore e mezza di camera di consiglio, ha pronunciato la sentenza che chiude il primo capitolo giudiziario di Mafia capitale.

I fatti relativi a mafia capitale

Secondo la Procura di Roma, Massimo Carminati (ex terrorista nero e membro della banda della magliana) e altre 44 persone sono accusate di aver creato un’organizzazione mafiosa per controllare e manipolare l’assegnazione di appalti pubblici e la gestione dei migranti, tramite una serie di legami tra associazioni di stampo mafioso, affaristi, funzionari pubblici e politici.

Nello specifico l’ex capo di gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine avrebbe, in qualità di componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale, gestito i flussi dei richiedenti asilo, dirottandoli verso la Capitale, per far guadagnare il sodalizio di mafia capitale, in particolare le cooperative di Salvatore Buzzi, che si occupavano della gestione dei migranti. Solo con la gestione di uno dei campi rom di Roma, il sodalizio avrebbe guadagnato più di 2 milioni di euro.

Ma non basta, perché l’imputato Franco Testa, Ex cda Enav, si occupava di proporre “amici” nei posti più importanti dell’amministrazione comunale, mentre Franco Panzironi, l’ex amministratore di Ama, si occupava di gestire i proventi illeciti, inoltre Luca Gramazio, ex consigliere prima del Comune di Roma (capogruppo PD) e poi della Regione Lazio, attraverso una serie di atti amministrativi, favoriva i componenti dell’associazione criminale di mafia capitale. Questa, a grandi linee, è la ricostruzione dei fatti compiuta dalla Procura della Repubblica di Roma.

Mafia capitale era associazione a delinquere semplice

Da quanto emerge dal dispositivo della Sentenza (in attesa delle motivazioni) a Roma, fino al 2014, hanno agito due associazioni per delinquere, non di stampo mafioso: una che fa capo a Massimo Carminati, Riccardo Brugia, Matteo Calvio e Roberto Lacopo; l’altra riconducibile agli stessi Brugia e Carminati insieme con Salvatore Buzzi, Claudio Caldarelli, Nadia Cerrito, Luca Gramazio, Franco Panzironi e altri. Quindi, nonostante le pene severe inflitte a numerosi componenti dell’associazione a delinquere, i giudici non hanno ritenuto di applicare la norma dell’art. 416/bis, “associazione di tipo mafioso”.

La norma

Ma cosa dice la norma dell’art. 416/bis?

Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni.
Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni.
L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.
Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei anni nei casi previsti dal secondo comma.
L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito.
Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.
Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono e furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. [Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare].
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.

Quindi i criteri per riconoscere un’associazione di tipo mafioso sono:

una pluralità di figure criminose

di carattere alternativo ed autonome, ognuna delle quali deve possedere la consapevolezza di contribuire con la propria condotta alla sussistenza dell’associazione e al raggiungimento dei suoi obiettivi sia personali che di gruppo;

una forma organizzativa stabile e continuativa

non per forza di lunga durata e non necessariamente immutabile.

un ruolo apicale

(o una posizione dirigenziale) di uno dei membri.

una carica intimidatrice

idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengono a contatto con l’organizzazione, nonché concreta (e non astrattamente esercitata) che si sostanzia in violenze, anche di carattere psicologico e atti tesi a costringere qualcuno ad eseguire un’azione pur contro la sua volontà, non per forza attraverso l’uso delle armi.

l’assoggettamento

cioè l’attività di coercizione psichica (e talvolta fisica) finalizzata a creare una percezione interiore dell’inferiorità del soggetto a cui sono rivolte le intimidazioni ed a sottomettere quest’ultimo alla volontà di chi intimidisce, generando un concreto timore per la propria incolumità e per quella della propria famiglia qualora il soggetto intimidito non acconsenta alla volontà del soggetto che genera le intimidazioni.

l’omertà

consiste nell’atteggiamento tenuto dal soggetto intimidito, in conseguenza dell’assoggettamento, e cioè il rifiuto di collaborare con le Autorità nella repressione del sodalizio criminale.

Le sentenze

La prima e più importante Sentenza della Corte di Cassazione sul tema è la n. 1709/1974 per cui è associazione mafiosa “ogni raggruppamento di persone che, con mezzi criminosi, si proponga di assumere o mantenere il controllo di zone, gruppi o attività produttive attraverso l’intimidazione sistematica e l’infiltrazione di propri membri in modo da creare una situazione di assoggettamento e di omertà che renda impossibili o altamente difficili le normali forme di intervento punitivo dello Stato”. Tale Sentenza precede di 10 anni la discussione politica sul tema e pone le basi per il successivo inserimento dell’art. 416/bis nel corpus del Codice Penale.

Si è a lungo dibattuto se per la configurazione dell’associazione mafiosa occorra o meno un legame con le consorterie tradizionali (cosa nostra, ndrangheta, camorra) e la Giurisprudenza di legittimità ha chiarito che anche se ci fosse un sodalizio con la mafia organizzata, non è detto che la nuova organizzazione sia da considerarsi associazione mafiosa, perché, affinché avvenga ciò, occorre che la nuova consorteria mutui il metodo mafioso e operi con un’effettiva capacità di intimidazione, non rilevando penalmente il riconoscimento o meno da parte della “casa madre” (Cass. Pen., sent. n. 13635/2012).

Difatti, perché si parli di associazione mafiosa, occorre che “gli elementi qualificanti del sodalizio criminoso riferito dall’art. 416/bis attengono essenzialmente al modus operandi dell’associazione e alla specificità del bene giuridico leso. Il primo consiste nell’avvalersi della forza intimidatrice che promana dalla stessa esistenza dell’organizzazione, alla quale corrisponde un diffuso assoggettamento nell’ambiente sociale e dunque una situazione di generale omertà. Il secondo consiste nel fatto che, attraverso lo strumento intimidatorio, l’associazione si assicura la possibilità di commettere impunemente più delitti e di acquisire o conservare il controllo di attività economiche private o pubbliche, determinando una situazione di pericolo oltre che per l’ordine pubblico in genere, anche per l’ordine pubblico economico. La situazione di omertà deve ricollegarsi essenzialmente alla forma intimidatrice dell’associazione, e che se è invece introdotta da altri fattori, si avrà l’associazione per delinquere, ex art. 416 c.p., non quella di tipo mafioso. Ne discende che l’associazione di tipo mafioso si caratterizzi non tanto per la sua struttura, quanto per una certa intensità e stabilità del vincolo sodale, perché solo in relazione ad un forte vincolo può determinarsi quell’efficacia intimidatrice, che scaturisce dalla consapevolezza dell’esistenza stessa dell’associazione” (Cass. Pen., Sent. n. 16464/1990 e succ.).

Di Sentenze del genere ce ne sono a centinaia e, al netto di numerosi contrasti giurisprudenziali sulle forme, il ruolo soggettivo e sulle finalità dei sodalizi criminali, la giurisprudenza è ormai concorde nell’affermare che l’associazione di tipo mafioso si caratterizza quando sono presenti i sei criteri citati sopra, in particolare la carica intimidatrice, l’assoggettamento e l’omertà.

Conclusioni

Qualsiasi giurista ci dirà che nel diritto civile il fatto è certo ma la norma è incerta (e va ricercata), mentre nel diritto penale avviene l’esatto contrario: la norma è certa, è il fatto, invece, ad essere incerto (e va accertato). Quindi è certo che, nel caso in specie, l’art. 416/bis detta regole chiare su come identificare il sodalizio mafioso, interpretate e chiarite negli anni, ancor di più, dalla Giurisprudenza di merito e di legittimità, ma i fatti, così come accertati dalla Procura, non sempre sono chiaramente identificati e analizzati. Ecco perché, prima di commentare sull’esistenza o meno della “mafia” a Roma, è necessario leggere le motivazioni della Sentenza su mafia capitale e non uno striminzito dispositivo (a proposito, chi, tra gli innumerevoli commentatori dell’ultim’ora ha letto il dispositivo della Sentenza? Credo nessuno…), e credo che ciò non basti, perché per mettere il punto sulla questione ho paura che dovremmo attendere la Sentenza d’appello e, sicuramente, quella della Cassazione (mi auguro a Sezioni Unite, in modo da evitare ulteriori contrasti giurisprudenziali).

Perché siamo certi che i soggetti condannati dal Tribunale di Roma abbiano usato intimidazioni e si siano avvalsi di un’aura diffusa di omertà? E’ certo che abbiano approfittato dello stato di assoggettamento di coloro che si trovavano in contatto con il sodalizio criminale piuttosto che di uno stato di corruzione volontaria e sistematica? Sappiamo per certo che l’organizzazione era stabile e deteneva il controllo delle attività economiche servendosi della forza intimidatrice o più che altro della propensione ad elargire e far ottenere facili e ingiusti profitti?

Tutte queste domande avranno una risposta e mi auguro che i commentatori leggano la Sentenza con la stessa solerzia con cui sentenziano (è il caso di dirlo): è mafia capitale! No, non è mafia capitale!

Viva la mafia!

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Bene, oggi, a 25 anni dalla scomparsa di Paolo Borsellino e, poco prima, di Giovanni Falcone e, ancor prima, di Rosario Livatino e poi Carlo Alberto dalla Chiesa, Peppino Impastato, Ilaria Alpi (i nomi sono troppi, li trovate tutti qua) voglio fare una riflessione un po’ fuori dal coro.

Gli idioti che si fermeranno al titolo già mi staranno bestemmiando e mi faranno fischiare le orecchie per tutta la sera, ma gli altri che si prenderanno la briga di leggere l’articolo, capiranno che “viva la mafia” è la summa di 160 anni di uno Stato mal riuscito, sin dalla sua istituzione, tendenzialmente frammentato e incapace di attuare quelle forme di giustizia ed equità sociale in grado di creare coesione sociale e senso di appartenenza ad una Nazione e alla sua vita sociale e politica.

Detto in altri termini, la mafia è un cancro che prolifica in un organismo malaticcio che non ha alcuna intenzione di curarsi né di condurre una vita sana.

Come al mio solito, prima di parlare di un argomento, ci tengo a ricordare (e ricordarmi) le origini, anche per capire meglio quello che appresso dirò.

Le origini della mafia

Non è facile capire le origini del sistema mafioso. Secondo una leggenda risalente al 1400, tre cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, uccisero un uomo per vendicare l’onore della sorella e furono condannati a 29 anni 11 mesi e 29 giorni di carcere nell’Isola di Favignana. Durante la detenzione maturarono le “regole di onore e omertà” che costituivano il codice della “società”. Da allora Osso fonderà Cosa Nostra in Sicilia, Mastrosso la ‘ndrangheta in Calabria e Carcagnosso la Camorra a Napoli.

Leggenda a parte, si dice che effettivamente la mafia ebbe origini dalle sette segrete spagnole, che – durante il periodo borbonico – proliferavano nel Sud Italia, in particolare tra Napoli e Palermo, ma erano organizzazioni assimilabili alle attuali confraternite (o società massoniche) prive, dunque, di violenza e sopraffazione tipiche dell’attuale sistema mafioso.

Il nome mafia compare per la prima volta nel 1863, in un’opera teatrale: I mafiusi de la Vicaria, ambientata nel carcere della Vicaria di Palermo. Il termine non ha origini ben chiare, forse deriva dall’arabo (la presenza di comunità arabe è stata a lungo massiccia nel territorio siciliano), commistionato col dialetto siculo, mentre sappiamo con certezza che ‘ndrangheta deriva dal greco (“uomo valente, forte”) e camorra dal dialetto locale camurria (“imbrogliare, frodare”).

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Una scena del film “Il Prefetto di Ferro” di Pasquale Squitieri (1977)

Fino all’unità d’Italia le comunità mafiose erano dedite ad attività di riscossione crediti al soldo dei latifondisti e dei signorotti locali, oppure si potevano ricondurre al fenomeno del brigantaggio (delinquenza comune). Dopo l’unità d’Italia il fenomeno divenne più esteso e strutturato, arrivando all’uso della violenza e dell’imposizione e a sempre più intense attività di scambi con le nascenti istituzioni dello Stato sabaudo prima e del regime fascista poi. Tant’è che quando Mussolini, nel suo intento di sconfiggere la mafia, inviò in Sicilia il Prefetto Cesare Mori (detto “il Prefetto di ferro”) dovette richiamarlo subito a Roma non appena Mori iniziò a scoprire i legami tra i mafiosi locali e il governo di Roma.

Mussolini voleva solo propagandare una lotta alla mafia che però si fermasse all’arresto o alla soppressione della manovalanza, mai si sarebbe aspettato che Mori avrebbe scoperto i legami tra mafia e politica, tant’è che ricevette l’ordine di abbandonare l’operazione e tornare a Roma, dove gli fu impedito di proseguire con le indagini.

Mentre la mafia siciliana si strutturava nel controllo del territorio, dei commerci e negli accordi con le istituzioni, la ‘ndrangheta e la camorra erano ancora sistemi embrionali, dediti soprattutto al brigantaggio.

La ‘ndrangheta inizierà a svilupparsi economicamente solo a partire dagli anni ’70 fino agli anni ’90, con i sequestri di persona, grazie ai quali avrebbe ottenuto ingenti somme di denaro da reinvestire nei traffici internazionali di droga e armi, per poi divenire, nel giro di pochi decenni, una delle mafie più potenti al mondo, mentre la camorra inizierà a svilupparsi economicamente nel dopoguerra, grazie alla presenza degli americani a Napoli e a causa della perdurante crisi post-bellica che favorirà lo sviluppo di organizzazioni dedite al controllo del gioco d’azzardo, dello spaccio di alcool, sigarette e persino di generi di prima necessità. Anche la camorra, come la ‘ndrangheta, reinvestirà i suoi proventi nelle attività di traffico di droga.

Ma perché è nato il fenomeno mafioso?

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Una scena del film “Cristo si è fermato a Eboli” di Francesco Rosi (1979)

Non è facile dare una risposta, bisogna prima analizzare per bene la storia del Sud Italia. Bisogna conoscere la realtà della Civiltà contadina e degli oppressi al servizio del potente di turno, del signorotto locale o del sovrano che, senza conoscere i propri territori e chi ci abita, li scambia, li regala, ne fa oggetto di trattati con altri sovrani europei, oppure ne fa territorio di battaglie, usando la gente che – non sapendo nemmeno contro chi combatte – va a morire per una Storia altrui, per un sovrano che non conosce e non ama e contro un sovrano che non conosce e non odia. Va ad ammazzare altri soldati che, come lui, sono lì per fame e per un misero salario, oppure per imposizione. E mentre s’ammazzano, non si odiano, anzi, si amano perché, in fondo, pur essendo nemici, sono accomunati da un destino: essere sfruttati.

Per secoli i contadini, gli artigiani, i manovali del Sud sono stati sfruttati da potenze che non conoscevano né sentivano proprie. Sapevano solo che il signorotto avrebbe preteso la sua decima e avrebbe usato i suoi servitori (i mafiosi in fieri) per imporre il pagamento. E poi, tolto il signorotto, sarebbe arrivato un altro esattore, mandato da chissà chi e da chissà quale posto lontano, per imporre altre tasse, altri balzelli, altri pagamenti che li avrebbero resi ancora più poveri. Se è vero che, come racconta la Storia del Sud riemersa in questi anni, l’Unità d’Italia, al soldo dei Piemontesi, fu fatta nel sangue delle genti del Sud, i cui paesi vennero distrutti, le popolazioni sterminate e le banche saccheggiate, è anche vero che con i Borboni, i Francesi o i Veneziani non si stava meglio. Forse stavano meglio “quelli di città”, ma i contadini no.

Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli (che vi invito a leggere per capire meglio la storia del Sud e degli oppressi) scrive:

Gli Stati, le Teocrazie, gli Eserciti organizzati sono naturalmente più forti del popolo sparso dei contadini: questi devono perciò rassegnarsi ad essere dominati: ma non possono sentire come proprie le glorie e le imprese di quella civiltà, a loro radicalmente nemica. Le sole guerre che tocchino il loro cuore sono quelle che essi hanno combattuto per difendersi contro quella civiltà, contro la Storia, e gli Stati, e la Teocrazia e gli Eserciti. Sono le guerre combattute sotto i loro neri stendardi, senz’ordine militare, senz’arte e senza speranza: guerre infelici e destinate sempre ad essere perdute; feroci e disperate, e incomprensibili agli storici.

In questo contesto di sfruttamenti perenni e di briganti (cioè i primi mafiosi) eroi, che difendono il popolo, pensate che le nuove istituzioni, volute con l’unità d’Italia, poi le corporazioni fasciste e poi la nuova Repubblica del 1948 (che non avrebbe, per decenni, soppresso lo sfruttamento) avrebbero eliminato le ingiustizie e rappresentato un volano di sviluppo per le genti del Mezzogiorno? No, affatto.

La redistribuzione delle terre ai contadini, fatta negli anni ’50, ovviamente frammentò il latifondo, ma il governo non garantì ai contadini adeguati strumenti produttivi o cooperativi e fu così che, impossibilitati a coltivare le terre, i contadini emigrarono in massa. Sfruttati e abbandonati dalle istituzioni, in un periodo in cui le regioni non esistevano ancora (saranno istituite solo negli anni ’70) e i comuni erano governati da sindaci provenienti dalle vecchie nobiltà (e quindi ex latifondisti ed ex signorotti), a chi si doveva rivolgere un povero contadino per avere una minima forma di tutela? Non certo al sindaco, né alle forze dell’ordine, e quindi – giocoforza – l’unico punto di riferimento era il brigante, il mafioso locale, che spesso era uno di loro, ma arricchito (grazie alle attività criminali) e che, per ottenere consensi, elargiva favori a chi non poteva avere giustizia da parte delle Istituzioni.

Avevi subito un torto? Ti rivolgevi al mafioso. Tua figlia era stata importunata da qualche ragazzotto? Se ti fossi rivolto alle forze dell’ordine avrebbero detto che non potevano intervenire (come accade oggi, del resto) e quindi, per ottenere giustizia, andavi dal mafioso. Volevi far lavorare tuo figlio? Il mafioso era quello che ti garantiva, grazie alle sue conoscenze, un lavoro. Il boss locale era il sindaco di fatto e i suoi soldati rappresentavano le forze dell’ordine al suo soldo e, in ultima analisi, al servizio dei compaesani.

Come si fa a sconfiggere la mafia?

livatino ucciso dalla mafia
Rosario Livatino, detto il giudice ragazzino, ucciso dalla mafia nel 1990

Le giornate della memoria, come quella di oggi, non servono a nulla. E non serve nemmeno mandare al macello legioni di magistrati coraggiosi, uomini di scorta, funzionari o prefetti, insomma, gente onesta, proba e valorosa.

I magistrati uccisi dalla mafia sono l’esempio del fallimento di uno Stato che ha fatto accordi con la mafia, per paura e perché ormai è impossibile sconfiggerla. Uno Stato che, nelle sue articolazioni e nella sua ignavia, ha lasciato le porte aperte affinché, tramite la corruzione, la mafia s’impadronisse di consigli comunali, regionali, società partecipate, appalti.

E’ evidente che lo Stato italiano non è mafioso (solo i fessi fanno semplificazioni così puerili), ma non è stato in grado di eliminare il problema dalla sua radice: l’approvazione sociale.

La gente deve pur sopravvivere. Se lo Stato è assente, la mafia è presente nei propri territori. Garantisce occupazione e giustizia. In Calabria ci sono più forestali che in Trentino? E’ merito della ‘ndrangheta, certo. Che fanno le persone, se lo Stato è assente e non garantisce dignità o, ancor peggio, fonti di sopravvivenza? Ora capite perché nonostante la gente sappia che la mafia deturpa i territori (anche gli stessi territori in cui vivono) è omertosa e non si lamenta?

Ora vi spiegate perché la statua di Borsellino viene distrutta e la gente difende i boss locali o, peggio, gli fa l’inchino durante le processioni? Non è arretratezza culturale né cultura mafiosa insita nella gente. E’ solo un tentativo di difendere le uniche persone che garantiscono quel minimo di sopravvivenza. Lo so che vi scandalizzate a leggere queste parole, ma è solo comprendendo gli aspetti positivi della mafia che la si può sconfiggere. E nessuno, al Sud, è così autolesionista da subire lo scempio dell’ambiente e il degrado se non ha, come moneta di scambio, qualcosa, anche il minimo per sopravvivere.

La mafia può anche avere imperi economici in tutto il Mondo, ma si può sconfiggere bruciando la terra che alimenta le sue radici: l’approvazione sociale. E come? Se lo Stato è presente nei territori, se si attuano politiche di vera giustizia ed equità sociale, se si garantisce dignità sociale alle persone, attraverso il lavoro, il welfare, strutture che funzionano ed Enti locali che rispondono alle esigenze dei cittadini, la mafia non ha più ragione di esistere né di autoalimentarsi.

Utopia? Certo. Perché la direzione che ha preso l’Italia negli ultimi anni è diametralmente opposta a questa: privatizzazioni dei servizi pubblici (anche di quelli essenziali), cieca ubbidienza alla tecnocrazia europea e alla logica bancaria e capitalistica, quindi foriera di ingiustizie sociali sempre più evidenti, abbandono del Sud anche a causa del taglio dei trasporti, abbandono delle politiche volte all’inclusione sociale di giovani e fasce deboli della popolazione, politiche volte a favorire l’immigrazione a scapito del welfare interno (non sempre è vero, ma è ciò che la gente percepisce anche a causa dell’eccessiva apertura delle nostre frontiere, della debolezza nei confronti degli altri Paesi europei, che invece le chiudono e della discussione, inopportuna e inappropriata, sullo ius soli), tutto questo contribuirà ad alimentare le ingiustizie sociali e a favorire il potenziamento dei sistemi mafiosi. A poco serviranno le commemorazioni, le operazioni di polizia, gli arresti, le confische dei beni. I beni e i soldati della mafia si potranno ricomprare agevolmente, mentre ciò che alimenta il sistema mafioso, cioè l’approvazione sociale, non sarà mai sradicato da uno Stato che, in fondo in fondo, con la mafia ci sa convivere. Parola di Pietro Lunardi.

lunardi mafia
Lo disse il Ministro Piero Lunardi nel 2001 in Sicilia: “bisogna convivere con la mafia”