Cent’anni di Pasolini

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Oggi, cinque marzo, ricorre il centesimo anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini. Un intellettuale a tutto tondo, che ha saputo spaziare dalla poesia alla saggistica alla letteratura, passando per la pittura ed il cinema. Il tutto senza soluzione di continuità e avendo come tema dominante una lucida critica di classe al potere. Ogni tanto … Leggi tutto

Si è rotto il frigorifero e dovevo cambiarlo, ma…

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Vi racconto una vicenda personale sul frigorifero che si è rotto e che avrei dovuto cambiare, perché spinto a farlo. Poi ho cambiato idea. Anzi, no. Sono subentrati gli anticorpi. Prodotti non da me, ma dal pensiero di Pasolini e Marx. Che c’azzeccano due personaggi vissuti l’uno cinquanta e l’altro centocinquant’anni fa con un frigo … Leggi tutto

Capacità di intendere e volere e influenze culturali dominanti

capacità di intendere e volere cultura egemone edonismo e narcisismo

Quest’articolo vuol essere solo uno spunto di riflessione che parte dall’analisi di un cruento fatto di cronaca – l’assassinio di due giovani fidanzati ad opera di un loro coetaneo – per arrivare a chiedersi cosa sia in effetti la capacità di intendere e volere e quali influenze abbia in ciò la cultura egemone. Il fatto … Leggi tutto

La lentezza è umana, la frenesia è piccolo borghese

un simbolo della sottomissione della lentezza della civiltà contadina allo sviluppo senza progresso

Giorni addietro ho saputo della scomparsa di Franco Cassano. Chi lo conosce sa quanto questo grande intellettuale, professore di Sociologia all’Università di Bari, ha scritto, ha detto, ha fatto per il Sud. Quanto il suo pensiero, in passato, sia stato l’avanguardia, parlando di pensiero meridiano, mentre il Sud, più del Nord Italia, si ubriacava di … Leggi tutto

Amelia Rosselli, l’amica di Bene, Levi, Scotellaro, Pasolini

amelia rosselli

Il 28 marzo 1930 nacque a Parigi Amelia Rosselli, poetessa, musicista, musicologa, sceneggiatrice teatrale e attivista politica. Il suo nome è legato, direttamente o indirettamente, a grandi nomi della politica e della cultura italiana e la sua biografia (ben scritta qui) ha alcuni tratti simili a quella di Alda Merini. Come accadde ad Alda, anche … Leggi tutto

Un pensiero a Carmelo Bene

carmelo bene

Il 16 marzo del 2002 ci lasciava Carmelo Bene, attore teatrale e cinematografico, drammaturgo, poeta, regista, sceneggiatore, scrittore. Classificare Carmelo Bene in categorie artistiche è piuttosto complesso. La sua vita, come le sue opere, sono state sempre fuse in un unico filo conduttore narrativo. Lui stesso amava definirsi genio: “Il talento fa quello che vuole, … Leggi tutto

In memoria di Pasolini

pier paolo pasolini

A 49 anni di distanza dalla sua morte, Pier Paolo Pasolini rappresenta una pietra miliare della cultura italiana, non solo e non tanto per le sue produzioni intellettuali quali poesie, articoli, saggi, interviste, documentari, quanto per il suo pensiero che, oggi, a distanza di mezzo secolo, è più attuale che mai. Mi piace ricordarlo oggi, … Leggi tutto

Il congresso mondiale sulle famiglie è solo folklore

famiglia

E’ iniziato oggi a Verona il congresso mondiale sulla famiglia tradizionale e, tra mille polemiche, molti commentatori hanno evidenziato subito gli orrori che sono fuoriusciti dal convegno o al margine di esso, tra cui “i gay sono da curare”, “l’aborto è omicidio” oppure “la donna deve tornare a essere mamma” e altre amenità del genere. Ora, a parte le valutazioni politiche e le possibili ricadute politico-giuridiche di certe affermazioni (che non starò qui a trattare e che spetta alle opposizioni contrastare nelle dovute sedi), quello che invece va messo in risalto è l’aspetto grottesco, cinematografico e sotto molti aspetti folklorico (nella sua accezione più sprezzante) di tutto questo circo appena sbarcato a Verona.

Detto in estrema sintesi, la salvaguardia della famiglia tradizionale è una sciocchezza enorme, utile solo a creare dibattito, tenere impegnati i giornalisti e l’opinione pubblica e distogliere l’attenzione dal suo intento più intimo. Questa semplice affermazione trova legittimazione in due ancor più semplici considerazioni: la prima è che nell’attuale società post-moderna la famiglia, intesa in senso tradizionale e nell’accezione data dagli organizzatori dell’evento, non esiste più, è anacronistica e nessuna operazione politica o di carattere sociologico potrà mai riportarla in vita. La famiglia tradizionale è stata superata dalla Storia come è stata superata dalla Storia quella cultura dominante e le sovrastrutture che la tenevano in vita.

La seconda considerazione è invece più strettamente legata alla struttura di fondo della società dominante, ossia che con questo convegno e con le politiche volte alla tutela della famiglia tradizionale si sta disperatamente cercando di mettere una pezza alla dissoluzione di quel nucleo sociale fondamentale che rappresenta il più importante riferimento nella società dei consumi.

Spiegherò subito le due considerazioni, ma prima voglio sottolineare che i due aspetti, in apparenza antitetici, sono in realtà intimamente connessi perché si fondano su una visione post-moderna, consumistica ed edonistica del concetto di famiglia e tutti i principali sovranisti e conservatori, parlando di famiglia tradizionale, confondono ad arte significante e significato e parlano alla pancia di una (larga) parte del Paese che non ha ancora ben chiaro il mutamento sociale avvenuto negli ultimi decenni.

La famiglia tradizionale è scomparsa

Zygmunt Bauman
Zygmunt Bauman

Zygmunt Bauman, in La società dell’incertezza, scrive che le

reti di protezione, tessute e tutelate con mezzi propri, le “trincee di seconda linea” un tempo messe a disposizione dalle relazioni di vicinato o dai rapporti familiari, dove si poteva trovare rifugio e curare le ferite procurate nelle dure battaglie della vita esterna, se non sono del tutto smantellate hanno comunque subito un considerevole indebolimento. Parte della responsabilità è da attribuire alle nuove (ma sempre mutevoli) pragmatiche delle relazioni interpersonali, pervase ora dallo spirito dominante del consumismo che identifica nell’altro un potenziale mezzo per ottenere gradevoli esperienze. Qualsiasi cosa siano in grado di fare, le nuove pragmatiche non possono generare legami duraturi. Il tipo di legami che esse producono in abbondanza, incorpora clausole “a scadenza” e “a libera contrattazione” e non promettono né l’attribuzione né il conseguimento di diritti o di obbligazioni.

Diritti e obbligazioni che invece rappresentano, secondo una concezione tradizionale della famiglia, la struttura sulla quale imperniare il rapporto familiare.

A differenza che nel passato, nella visione classica del concetto di famiglia, influenzato certo dalla morale cattolica, ma basato sulla comunanza d’intenti e sull’assistenza morale e materiale, nella società post-moderna la morale cede il passo a rapporti umani frammentari e discontinui in cui le visioni della vita post-moderna sono in perenne lotta contro i “fili che legano” e le conseguenze di lunga durata, e militano contro la costruzione di reti di doveri e obblighi reciproci che siano permanenti, in quanto l’Altro (il partner) viene visto come oggetto di valutazione estetica, non morale, come una questione di gusto, non di responsabilità. L’autonomia individuale si schiera contro le responsabilità morali, si disimpegna ed evita di precostituirsi degli obblighi, sopprimendo di fatto il complesso etico-morale che è alla base del matrimonio e, dunque, della famiglia.

La società dei consumi ha prodotto l’individualismo e l’edonismo (lo rilevò persino Paolo VI nel 1968), ha spinto l’individuo a tal punto da disgregare quel complesso di norme morali che rappresentano la tradizione (non solo quella giudaico-cristiana su cui si basa l’Occidente europeo, ma anche quella della civiltà contadina stratificata, che fino a 60 anni fa era una sub-cultura strutturata nella cultura dominante) e, di conseguenza, la famiglia tradizionale.

Le famiglie nella società dei consumi

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

Ma la società dei consumi, dopo aver prodotto l’Uomo-edonista che rifiuta le responsabilità insite nel nucleo familiare, svuota di contenuto buona parte della sua cultura e la sostituisce con l’interesse, l’eccitazione, la soddisfazione o il piacere, si accorge di avere bisogno della famiglia e di considerarla il centro dell’interesse in quanto, come scrive Pasolini in Scritti Corsari,

la civiltà dei consumi ha bisogno della famiglia. Un singolo può non essere il consumatore che il produttore vuole. Cioè può essere un consumatore saltuario, imprevedibile, libero nelle scelte, sordo, capace magari del rifiuto: della rinuncia a quell’edonismo che è diventato la nuova religione. La nozione di «singolo» è per sua natura contraddittoria e inconciliabile con le esigenze del consumo. Bisogna distruggere il singolo. Esso deve essere sostituito (com’è noto) con l’uomo-massa. La famiglia è appunto l’unico possibile «exemplum» concreto di «massa». È in seno alla famiglia che l’uomo diventa veramente consumatore: prima per le esigenze sociali della coppia, poi per le esigenze sociali della famiglia vera e propria. Dunque, la Famiglia (…) che per tanti secoli e millenni era stata lo «specimen» minimo, insieme, della economia contadina e della civiltà religiosa, ora è diventata lo «specimen» minimo della civiltà consumistica di massa.

Come acutamente osserva Pasolini, la famiglia è il fulcro, la cellula primaria dell’interesse della società dei consumi e passa dall’essere centro del potere della Chiesa (o delle sub-culture contadine) a centro del potere del consumo, quindi del capitale. Sfaldare la famiglia secondo la logica post-moderna dell’edonismo e dell’interesse a breve termine (la velocità non crede nella ripetizione, è anticerimoniale, scriveva Franco Cassano) significa frammentare nel tempo e nello spazio risorse e strategie, perdere profitti, quote di mercato.

Da qui la considerazione iniziale che l’attuale congresso sia un momento folklorico. Lo è negli aspetti che molti commentatori stanno evidenziando in questi giorni, ma non lo è nel suo intento più intimo e non palese.

L’intento, non palesato, di chi propugna la famiglia tradizionale non è quello antistorico di tornare indietro, perché sennò si dovrebbe tornare al dominio culturale e spirituale della chiesa se non addirittura al latifondo, ma è quello attualissimo di ricostruire i brandelli di una sovrastruttura che possa reggere i colpi di una struttura ormai al collasso e che, proprio in questi momenti, mostra la sua maggior ferocia: la struttura economica del capitale.

Che fine ha fatto la cultura popolare?

cultura popolare

Breve excursus sulle varie fasi che hanno portato allo studio e all’emersione della cultura popolare e di come oggi sia una mera teca da museo senza più appigli con la realtà che dovrebbe produrla.

Il folklore, inteso come rappresentazione culturale delle tradizioni popolari (cioè gli usi, i costumi, le musiche, la cucina, le tecniche, i saperi, i racconti, le fiabe, ecc.), è stato oggetto di interesse da parte del movimento romanticista, a partire dal 1700, per poi fiorire nel 1800. E’ in questo periodo che nasce, in un certo senso, l’antropologia come studio delle culture popolari.

Il Volksgeist, lo Spirito del popolo era, nell’intenzione dei Romantici, l’elevazione della volontà della Nazione quale legge fondamentale del suo sviluppo sociale, contrapposto al giusnaturalismo, che vedeva come fondamento la legge naturale. Lo Spirito, ossia l’individuo universale, concetto largamente usato da Hegel, corrispondeva, nell’idea dei Romantici, all’Individuo-Popolo o all’Individuo-Nazione che trovava le sue radici nella cultura popolare, la quale venne utilizzata sia per differenziarsi da altri Individui-Nazione sia per accentuare le proprie peculiarità. E’ vero che buone parti del pensiero dei Romantici furono utilizzate per giustificare i nazionalismi e per dare una connotazione filosofico-culturale al regime nazista, ma è anche vero che questa filosofia diede il via all’analisi antropologica, che avrebbe, nel tempo, cambiato per sempre il concetto di Cultura.

La cultura popolare in Italia nell’Ottocento e primi del Novecento

In Italia il primo a porre l’attenzione sulle culture popolari fu Niccolò Tommaseo che, nel suo incontro con la poetessa pastora Beatrice di Pian degli Ontani, nel 1832 scrisse:

Feci venire di Pian degli Ontani una Beatrice, moglie d’un pastore, donna di circa trent’anni che non sa leggere e che improvvisa ottave con facilità, senza sgarar verso quasi mai: con un volger d’occhi ispirato, quale non l’aveva di certo madama De Sade […] Donna sempre mirabile; meno però, quando si pensa che il verseggiare è quasi istinto ne’ tagliatori e ne’ carbonai di que’ monti“.

Quel quasi istinto lasciò germogliare l’idea, tra numerosi intellettuali, che i contadini, i pastori, gli strati più umili della popolazione, avessero spontaneamente e forse inconsapevolmente l’istinto alla poesia, ai versi. Un istinto millenario, capace di produrre versi, musiche, canti, tecniche e saperi che furono oggetto di indagine, ma in chiave positivista, ossia, detta in altri termini, in chiave estetico-letteraria secondo un approccio assolutistico: c’è una cultura superiore, frutto dell’evoluzione degli studi e una cultura inferiore, frutto dell’ignoranza e di disgregate conoscenze delle cose. In quest’ottica il folklore venne sì studiato, ma come espressione pittoresca del popolo delle campagne. E’ con quest’ottica che, per tutto fine Ottocento e fino alla prima metà del Novecento, il folklore veniva catalogato tra le belle cose d’Italia, ma senza mai rientrare degnamente nel concetto di cultura (o di culture, per usare un’espressione del relativismo antropologico).

Gramsci e De Martino

Antonio Gramsci
Antonio Gramsci

Ma fu proprio un Intellettuale, Antonio Gramsci, che, nelle sue Osservazioni sul Folklore (Quaderni dal Carcere), individuò un nuovo approccio alla cultura popolare: non più un popolo indistinto che produce aspetti pittoreschi e folklorici, frutto dell’arretratezza e dell’ignoranza (com’era nell’approccio positivista), ma l’espressione alternativa di una cultura frutto di classi oppresse dalla cultura dominante. Gramsci, quindi, inserisce la produzione culturale popolare in un contesto sociale, la storicizza e la rende un’alternativa alla cultura dominante.

Il suo approccio sarà poi adottato da studiosi come Ernesto De Martino e Gianni Bosio, che condurranno le loro ricerche consapevoli che l’emersione della produzione culturale popolare favorirà una presa di coscienza delle classi subalterne in chiave anti-borghese.

Senza l’apporto di Intellettuali come Gramsci, De Martino, Bosio e tanti altri, le culture popolari non avrebbero avuto quella dignità tale da essere poi considerate, nei decenni successivi, alla stregua di un Patrimonio intangibile degno di tutela istituzionale (nel bene e nel male), tant’è che le varie Convenzioni UNESCO, sin dal 1989, sono state volte a dare salvaguardia e valorizzazione al folklore, nei suoi aspetti materiali e immateriali. Il loro apporto è stato, quindi, fondamentale, non tanto e non solo nello spostare l’indagine sulle culture popolari da un terreno estetico a uno sociologico-antropologico, ma anche nel capovolgere l’azione dell’Intellettuale, il quale non si pone come docente, dall’alto del suo sapere, ma come allievo nei confronti dei portatori di saperi folklorici.

Tuttavia questi intellettuali, che hanno avuto il pregio di dare rilievo al folklore, hanno vissuto in un’epoca in cui il dualismo cultura egemonica / cultura subalterna si sostanziava in modo netto: da un lato c’era, quindi, il popolo sottomesso e dall’altro lato la borghesia; da un lato la Civiltà contadina, dall’altro la civiltà cittadina. Insomma, netta era la distanza tra i due poli.

Gli anni Sessanta e Settanta

Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, però, qualcosa è cambiato. Le emigrazioni di massa, l’industrializzazione, l’emersione della società dei consumi, la diffusione di mezzi di comunicazione di massa come la TV e, in generale, un nuovo modello sociale, basato sul benessere e sull’urbanizzazione, hanno contribuito alla scomparsa della Civiltà contadina e delle sue produzioni immateriali: storie, saperi, musiche e canti vennero travolti da modelli culturali più appetibili e diffusi. Del resto la cultura popolare veniva vista come un’espressione di un cattivo passato da dimenticare, fatto di miseria e fame, mentre la nuova cultura egemonica predicava benessere ed era incompatibile con il vivere povero delle campagne, ormai svuotate a favore del più remunerativo lavoro nelle industrie nascenti.

E’ in questo periodo che molti intellettuali hanno ripreso gli studi di Gramsci e De Martino sul folklore non più e non solo in chiave anti-borghese, ma anche in chiave anti-capitalista, anti-egemonica e, successivamente, anti-globalista e localista, dove il dualismo egemonia/subalternità non rappresenta più la lotta di classe tra chi vive in mondi diversi e in contrapposizione, ma una frammentazione sociale inserita nel contesto dell’interclassismo.

Se è vero che il povero, ormai privo del suo terreno di riferimento, sogna di essere ricco e sogna, come modello del benessere, la Seicento, la casa al mare e uno stipendio sicuro, il suo volersi elevare a borghese (o piccolo-borghese) è l’esempio di una stratificazione sociale frammentata e fittamente segmentata, dove non vi è più una (potenziale e possibile) lotta di classe, ma una lotta a senso unico, volta all’illusorio raggiungimento del sogno del benessere. In questo quadro mutano i c.d. folkways, ossia le abitudini dell’individuo e i costumi della società che sorgono da sforzi intesi a soddisfare i bisogni (William Sunmer, Costumi di gruppo, 1906), non sono più nettamente trasmessi dal gruppo di riferimento, ma si confondono con quei bisogni, indotti o spontanei, propri della civiltà cittadina attraverso le influenze della società dei consumi.

Insomma, la cultura popolare inurbata e rimodellata nei ceti operai di periferia, nell’incontro-scontro tra operai e piccola borghesia, nel mescolamento tra vecchi modelli e nuovi bisogni, produce, tra gli intellettuali di sinistra degli anni Settanta, un nuovo approccio, che è quello dell’analisi demologica non più di matrice gramsciana, ma volta a studiare le culture subalterne e suburbane. Quel poco che resta della Civiltà contadina è oggetto di incessanti studi e ricerche, che oggi rappresentano l’architrave della conoscenza che possiamo avere di ciò che in quel periodo restava ancora autentico. Dico autentico non perché nelle culture popolari possa essere ammesso un termine del genere, ma perché oggi quelle ricerche etnografiche vengono cristallizzate nel concetto di tradizione e fatte passare per espressione di identità culturale, quando altro non sono che un aspetto mutevole di una realtà che di lì a poco sarebbe totalmente scomparsa.

L’opera degli Intellettuali di quel periodo fu quindi di ri-scoperta e ri-proposta contro la massificazione industriale, la produzione egemonica musicale, insomma, il consumismo, l’omologazione e l’industrializzazione che, nel corso degli anni, avrebbe profondamente mutato le matrici culturali e, di conseguenza, le espressioni stesse.

L’intellettuale che più ha messo l’accento sulla disgregazione della cultura popolare ad opera della società dei consumi fu Pier Paolo Pasolini, il quale s’interrogava su come la cultura popolare potesse rimodellarsi all’interno di una struttura sociale ormai profondamente mutata.

Accanto a lui, Alberto Mario Cirese (Cultura egemonica e culture subalterne, 1973) gettò le basi per una riflessione sul rapporto tra egemonia e subalternità non più in chiave gramsciana ma secondo un’indagine che tenesse conto anche della reciproca influenza tra la cultura egemonica e quelle subalterne nonché della circolarità del rapporto tra esse, nell’ottica per cui il folklore si pone come un’espressione di cultura alternativa e implicitamente contestativa che però si rimodella ogniqualvolta i suoi portatori si trovano a cavallo tra l’egemonia e una subalternità che però non è cementificata, ma è inserita in un corpo estraneo ad essa e rimodellabile continuamente.

Del resto è storia recente che la cultura popolare è diventata sempre più appannaggio della massa e di quegli intellettuali piccolo-borghesi inurbati che trovano in essa uno sfogo nei confronti della nevrosi prodotta da modelli omologanti di matrice globale. Ma non solo! E’ anche un pretesto per riaffermare presunte identità locali che, però, non avevano alcun senso nella Civiltà contadina. Il concetto di identità è stato introdotto, anzi, nella riemersione della cultura popolare, come riaffermazione di presunti valori territoriali contrapposti al modello global.

Gli anni Ottanta e Novanta

Difatti gli anni Ottanta e Novanta hanno rappresentato, per la cultura popolare, un periodo sì di rivitalizzazione (frutto anche della conseguente attenzione globale nei confronti delle diversità culturali, come l’es. dell’UNESCO), ma anche di profondo mutamento. Se da un lato si moltiplicavano le attenzioni rivolte alle espressioni culturali e rinasceva l’interesse nei confronti delle loro rappresentazioni (cucina tipica, musiche e canti, in particolare), soprattutto in chiave di promozione del territorio nei confronti del sempre crescente fenomeno turistico, dall’altro si sentiva sempre più pressante l’intrusione del mercato del folklore di matrice, appunto, egemonica. E l’appropriazione del concetto di Patrimonio Culturale da parte delle Istituzioni (si pensi alla creazione di apposite Fondazioni per la sua promozione) unito alla sempre maggiore attività del mercato degli eventi ha di fatto consegnato la cultura popolare, nello specifico musiche e canti, nelle mani della cultura egemonica, la quale, chiaramente, ha tutto l’interesse a spezzettare e sminuzzare le espressioni folkloriche selezionandone gli aspetti più appetibili sul mercato degli eventi e trascurando, di fatto, quelli meno vendibili. Quest’operazione, squisitamente egemonica e omologante, da un lato ha privato di ogni valore la cultura nella sua complessità e dall’altro ha sottratto ai suoi portatori il diritto di usarla e ricontestualizzarla.

Ma, ad ogni modo, ormai questo diritto non c’è più proprio perché non c’è più quel sub-strato culturale che produce espressioni culturali sue proprie. Insomma, ciò di cui si è appropriata la cultura egemonica non è tanto la cultura popolare in sé (quella si è liquefatta e si mescola e confonde nell’interclassismo) quanto l’oggetto dell’indagine etno-demografica di quarant’anni fa, in altre parole un oggetto museale, però immateriale.

Oggi che succede?

Raymond Geuss
Raymond Geuss

Raymond Geuss, classe 1946 e professore emerito all’Università di Cambridge, scrive “la filosofia è morta: i segni vitali prodotti una quarantina di anni fa, l’eccitazione, la creatività, l’inventiva sono sostituite, ormai, da tediose recite e rievocazioni storiche” (qui trovi l’articolo originale). Mi permetto di citarlo perché, in fondo, è essenzialmente ciò che è accaduto alla cultura popolare.

E’ morta sotto la scure della società dei consumi, che ha fatto delle espressioni culturali popolari vive una merce da dare ad uso e consumo di stakeholders, turisti e massa indistinta e indiscriminata che non si riconosce né produce espressioni culturali nuove in quanto non le appartengono.

In altre parole, come ben dice Geuss, la creatività e l’inventiva sono sostituite da rievocazioni storiche, dall’ossessiva ripetizione della tradizione, che però non è rivitalizzata, ricontestualizzata e utilizzata in chiave anti-egemonica, ma ridotta a mera spettacolarizzazione, a ricordo quasi bucolico di un passato che non c’è più e che si ripropone come teca da museo.

In questo quadro la ricerca demologica si è interrotta ed è incapace di scandagliare le rappresentazioni dei sub-strati culturali ormai liquefatti e confusi tra ceti marginali e ceti borghesi. Non c’è più un anti- da proporre (anti-sistema, anti-capitalismo, anti-borghesia, anti-globalizzazione, ecc.) perché la critica che ha sempre sorretto la cultura popolare è scomparsa e il nemico da combattere oggi è talmente invisibile da non esistere.

Insomma, oggi il folklore è più simile a quello guardato con gli occhi del Positivismo ma in chiave moderna, ossia spettacolarizzazione estetico-letteraria di espressioni d’identità locale, mentre però i suoi portatori non esprimono una cultura, ma un ricordo, tenuto vivo solo dal mercato. E’ per questo che ormai da molti anni quei pochi portatori sani, ancora vivi, della Civiltà contadina, hanno abbandonato il campo della ri-proposta, in quanto non gli appartiene più, mentre sul campo sono rimasti quelli che non esprimono più alcunché, se non ciò che il mercato (o la moda del momento) gli impone di esprimere. Una sorta di servilismo che, però, soggiace alla legge del ribasso. Ne ho parlato, in riferimento alla musica, in quest’articolo.

Tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale diceva Hegel, a voler significare che Ragione e reale sono la stessa cosa. Questo la cultura popolare, nell’illetteralità dei suoi portatori, l’aveva intuito, come Gramsci aveva intuito che da questa filosofia spontanea potessero trarsi le basi per riaffermare la dignità delle classi popolari, mentre oggi il Razionale s’identifica con altro, che la demologia ancora non ha saputo (o voluto) individuare e gli Intellettuali si tengono ben lontani dal comprenderlo, mentre il reale è solo uno stantio ricordo del passato, che si manifesta nell’inconsapevole servilismo di chi, quella cultura popolare, pretende di esternarla senza sapere che, in realtà, sta solo perpetrando le istanze del potere egemonico.